Agorà

ITALIA 150. Romantici, gli scrittori dell'Unità

Carlo Ossola domenica 22 agosto 2010
Fatta l’Italia, 1861, restavano da fare gli italiani, secondo il monito di Massimo d’Azeglio; ma mancavano anche i libri che potessero, per la loro storia, valori e ideali, porsi come strumenti di educazione e formazione della rinata Italia. A tale progetto contribuirono certamente I promessi sposi, in specie a partire dall’edizione illustrata del 1840. Ma non bisogna dimenticare il ruolo essenziale avuto da Le mie prigioni di Silvio Pellico (Saluzzo 1789 - Torino 1854). Ci fu un’Italia eroica del sacrificio: quello del sangue, delle lotte risorgimentali, dei giovani morti a Curtatone e Montanara (29 maggio 1848), dei garibaldini e mazziniani; di tutto quel sangue saranno eredi le pagine di Cuore. Ma ci fu anche un’Italia più silente, stoica, quella di un cattolicesimo biblico, legato più alla coscienza che ai riti o ai poteri, del quale il Pellico e il Rosmini furono i più coerenti interpreti. Rileggere oggi qualche pagina da Le mie prigioni significa ritrovare la storia sotterranea di un "pietismo" europeo che, basato sulla semplicità, su un narrare sobrio, per quadretti raccolti, per capitoletti distribuiti intorno a una o due figure, aveva dato i suoi migliori frutti in Johann Peter Hebel (1760-1826), autore poi amatissimo da Walter Benjamin. Le sue Storie bibliche (1828-1829) sono, sul versante riformato, quello che Le mie prigioni rappresentano, con ben più ampia risonanza, sul versante cattolico; con la stessa attenuazione anti-eroica dello stile, nella ricerca di una «calma costante» («Curioso fatto, che il vivere arrabbiato piaccia tanto! Vi si pone una specie di eroismo!», capitolo XVII) nel governo di sé, nel giudizio sugli eventi, per quanto terribili come il carcere duro. La loro diffusione fu europea (edizioni in lingua italiana: Torino e Saluzzo 1832; Capolago 1833; Lugano 1834 e 1842; Parigi-Lione 1833, 1834, 1840, 1845; Bruxelles 1839; Bastia 1842; Malta 1842; Firenze 1847 e 1851; Milano 1858), anche in lingua francese (Mes prisons, Paris, Fournier 1833, 1837, 1838, 1842, eccetera). Più tardi – nello Stato unitario – continuò ad essere modello delle virtù risorgimentali: le edizioni si moltiplicarono, in effetti, dall’anno stesso dell’unificazione: Napoli 1860; Torino e Milano 1862, eccetera; e anche nei decenni successivi: Milano 1867, 1871, 1877, 1886, 1880, 1889, 1898; Torino 1874, 1887, 1890, 1893, eccetera, senza contare le molte edizioni scolastiche fiorentine, torinesi e milanesi di inizio XX secolo. Andrà anzi osservato, a proposito della formazione del Pellico, che gli anni lionesi lo porranno in contatto non solo con le correnti dell’Illuminismo, ma anche con i circoli di un cattolicesimo riformatore – si ricordino, su tutti, Pierre-Simon Ballanche (Lione 1776 – Parigi 1847), e sulla sua scia, appena più giovani del Pellico, Frédéric Ozanam (1813-1853), studioso di Dante e fondatore delle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli, e Jean-Jacques Ampère (1800-1864), francesista e comparatista, entrambi poi allievi, a Parigi, di Fauriel – che gli permetterà, negli anni milanesi, di aderire alla Carboneria e, non meno, di rimanere fedele alla Filotea di san Francesco de Sales. L’esperienza milanese, 1809-1820, lo vede prima di tutto artefice di testi teatrali: la tragedia Francesca da Rimini, 1815, ebbe un successo immediato, tanto che venne tradotta anche in francese e tedesco. Nel 1818 esce il Conciliatore, rivista-manifesto dei Romantici milanesi: il Pellico ne sarà animatore e sollecito redattore. Nel 1820, entra in contatto con Pietro Maroncelli, affiliato alla Carboneria, e vi aderisce; arrestato dagli austriaci, è processato a Milano (1820-1821), poi trasferito ai Piombi a Venezia, infine condannato a morte (pena commutata in «quindici anni di carcere duro» e trasferito alla fortezza dello Spielberg in Moravia). Nel 1830 viene graziato ed, espulso dai territori austriaci, rientra in Piemonte: di questa vicenda danno conto Le mie prigioni. Il Pellico si impiega come bibliotecario dei marchesi Barolo, rinuncia a qualsiasi attività pubblica e sostiene l’attività filantropica promossa – come nella Francia di Ozanam – dalla marchesa Giulia di Barolo Colbert. Seppe nondimeno contribuire ai libri dell’«identità italiana» non solo con il ritratto autobiografico, ma anche con un volumetto di letture: Dei doveri degli uomini: discorso ad un giovane, 1834, che ebbe una diffusione prodigiosa (nello stesso 1834 il libro venne pubblicato, presso distinti editori, a Torino, Milano, Bergamo, Cremona, Capolago, Venezia, Trieste, Padova, Parma, Bologna, Ancona, Firenze, Livorno, Napoli e, in italiano, a Lione e Parigi. Venne tradotto in svedese nel 1836) e fu poi rilanciato, nell’Italia unita, da un’edizione prefata dal sacerdote, e poi beato, Giovanni Bosco. Nel 1853 volle rendergli visita Giuseppe Mazzini. Morì a Torino l’anno dopo, il 31 gennaio 1854. Poeta degli spazi minimi, testimone tra i primi dell’universo concentrazionario – che avrà nel Novecento i suoi più marcati interpreti: Mandel’štam, Primo Levi, Varlam Šalamov, Aleksander Solzenicyn – Silvio Pellico ha, come questi, gli stessi compagni di coscienza e d’esilio: «Ben mi si permise ch’io avessi una Bibbia ed il Dante» (capitolo VI). Egli sa isolare, come negli stessi anni il Leopardi, e nel Novecento Calvino, il palpito creaturale e trasformarlo in simbolo universale. Il «bel ragno» o le formiche del capitolo XXVI de Le mie prigioni come la lucciola dei Ricordi d’infanzia e d’adolescenza del Leopardi («Intanto la lucciola era risorta ec. avrei voluto ec. ma quegli se n’accorse tornò – porca buzzarona – un’altra botta la fa cadere già debole com’era ed egli col piede ne fa una striscia lucida fra la polvere ec.»), il «geco» di Calvino rimangono emblemi assoluti, forme pure della vita al di là del male di esistere. Ma, soprattutto, Le mie prigioni, sono un lungo, sommesso, e insieme esigente, monologo di coscienza: «Il vivere libero è assai più bello del vivere in carcere; chi ne dubita? Eppure anche nelle miserie d’un carcere, quando ivi si pensa che Dio è presente, che le gioie del mondo sono fugaci, che il vero bene sta nella coscienza e non negli oggetti esteriori, puossi con piacere sentire la vita» (capitolo VII). Questa hebeliana simplicitas non manca tuttavia di lucide, e persin aguzze, allusioni; basterebbe ricordare l’episodio della "Maddalena" per osservare quanto il Pellico sottolinei la sua distanza dagli episodi manzoniani della Monaca di Monza, rifiutando i contatti e le facili complicità di una sottile parete (che avevano invece portato all’abnorme sviluppo di simile episodio nel Fermo e Lucia): «Mi passavano parimente sotto gli occhi molte donne arrestate. Da quella galleria s’andava, per un voltone, sopra un altro cortile, e là erano le carceri muliebri e l’ospedale delle sifilitiche. Un muro solo, ed assai sottile, mi dividea da una delle stanze delle donne. […] Se avessi voluto entrare in colloquio, avrei potuto. Me n’astenni» (capitolo XI). Per molti aspetti, questo libro è una "riduzione al minimo" delle Confessioni di Agostino e di quelle di Rousseau; ma questa attenuazione di tono è compensata da una affilata capacità di autoanalisi, che di rado capita di trovare anche nei grandi moralistes del Sei e del Settecento: «L’uomo infelice ed arrabbiato è tremendamente ingegnoso a calunniare i suoi simili e lo stesso Creatore. L’ira è più immorale, più scellerata che generalmente non si pensa. Siccome non si può ruggire dalla mattina alla sera, per settimane, e l’anima la più dominata dal furore ha di necessità i suoi intervalli di riposo, quegli intervalli sogliono risentirsi dell’immoralità che li ha preceduti. Allora sembra d’essere in pace, ma è una pace maligna, irreligiosa; un sorriso selvaggio, senza carità, senza dignità; un amore di disordine, d’ebbrezza, di scherno» (capitolo XXIV). La prigione non accentua soltanto il controllo di sé; essa suscita anzi – come nelle notti tassiane della prigionia di Sant’Anna – fantasmi e simulacri, descritti dal Pellico con la stessa febbrile impotenza di Torquato Tasso: «In quelle orrende notti, l’immaginazione mi s’esaltava talora in guisa che pareami, sebbene svegliato, or d’udir gemiti nel mio carcere, or d’udir risa soffocate. Dall’infanzia in poi, non era mai stato credulo a streghe e folletti, ed or quelle risa e que’ gemiti mi atterrivano, e non sapea come spiegar ciò, ed era costretto a dubitare s’io non fossi ludibrio d’incognite maligne potenze. Più volte presi tremando il lume, e guardai se v’era alcuno sotto il letto che mi beffasse. […] Stando al tavolino, or pareami che alcuno mi tirasse pel vestito, or che fosse data una spinta ad un libro, il quale cadeva a terra, or che una persona dietro me soffiasse sul lume per ispegnerlo. Allora io balzava in piedi, guardava intorno, passeggiava con diffidenza, e chiedeva a me stesso, s’io fossi impazzito od in senno» (capitolo XLV). Sembrano qui tornare lampi shakespeariani della sua Francesca da Rimini: «Fin nel delirio, agl’infelici / Scrutar vuolsi il pensier?» (atto I).Come Pascal, anche il Pellico ebbe in animo un progetto di Apologia del cristianesimo, i cui tratti mostrano bene quanto egli – e forse meglio che il Manzoni – sapesse far passare le esigenze di Port-Royal al filtro dei Lumi, adombrando una società compiuta nella Fraternité e nella quale il Vangelo accompagnava, ad ogni tappa, l’"incivilimento": «Quella difesa, io mi proponeva di farla a poco a poco, ed intanto la incominciava, analizzando con fedeltà l’essenza del cristianesimo: – Culto di Dio, spoglio di superstizioni, fratellanza fra gli uomini, aspirazione perpetua alla virtù, umiltà senza bassezza, dignità senza orgoglio. […] Una rassegna della storia, da Gesù Cristo in qua, dovea per ultimo dimostrare come la religione da lui stabilita s’era sempre trovata adattata a tutti i possibili gradi d’incivilimento. Quindi essere falso che, l’incivilimento continuando a progredire, il Vangelo non sia più accordabile con esso» (capitolo XXXVIII). Si può ben capire perché, nei decenni successivi, questa voce sia stata rimossa: e sarebbe saggio, oggi, ricollocarla al giusto posto in un Risorgimento con più pensiero, e anima, che sangue.