Agorà

Fede e letteratura. Nei 40 giorni riscritti da Grosjean l'ora più bella di Gesù

José Tolentino Mendonça giovedì 21 marzo 2024

Correggio, “Noli me tangere”, 1523-1524 (particolare)

Anticipiamo la prefazione scritta dal cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del dicastero vaticano per la Cultura e l’educazione, al libro Il Messia di Jean Grosjean (Qiqajon-Comunità di Bose, pagine 88, euro 10,00).

Nel racconto Pierre Menard, autore del “Chisciotte”, lo scrittore Jorge Luis Borges ci offre una sorta di parabola radicale sul significato da dare al fenomeno della “riscrittura”. Se è fuor di dubbio che Miguel de Cervantes sia stato l’autore di Don Chisciotte della Mancia, considerato da molti il primo romanzo moderno, possiamo però interrogarci su chi sia per questo testo chi lo legge. Borges inventa perciò il personaggio di Pierre Menard, che non voleva «scrivere un altro Chisciotte, ma il Chisciotte», cioè «produrre delle pagine che coincidessero – parola per parola e linea per linea – con quelle di Miguel de Cervantes». Il compito impossibile che si prefigge Pierre Menard serve insomma allo scrittore argentino per riflettere sulla questione della ricezione di un’opera da parte del lettore e in particolare sul gioco ermeneutico che si può instaurare tra lettura e riscrittura. La lettura, ci ricorda infatti Borges, è, a suo modo, una forma di riscrittura.

Riscrittura innanzitutto di chi legge, che esce trasformato dall’incontro con il testo. Ma anche riscrittura di ciò che viene letto, perché via via che ce ne appropriamo, come diceva san Gregorio Magno, il testo – e persino il Testo sacro – cresce con il suo lettore: Scriptura cum legente crescit. L’elemento chiave della riscrittura deve quindi essere ricercato in questa alleanza istituita dalla lettura. D’altro canto, è importante ricordare che la riscrittura non sostituisce propriamente la scrittura. La scrittura rimane. Ciò che la riscrittura può e deve fare è lottare con lei corpo a cor- po, fissarne la memoria e l’odore su un’altra pelle, lasciarsi interrogare e rinominare come Giacobbe permise all’angelo (cf. Gen 32, 27), accettare il colpo che altera il ritmo e il respiro, anche quando non ce lo aspettavamo. E, in questo modo, la riscrittura rappresenta un esercizio (verbale, ma anche spirituale) di traduzione, di pensiero critico su un oggetto, di espansione nutrita di tensione, di penetrazione, di spaesamento, di ruminazione, di fusione e differenziazione.

La letteratura ha prodotto innumerevoli riscritture della Bibbia, dichiarandola così, secondo la felice espressione di Piero Boitani, «patrimonio comune dell’immaginazione occidentale, cristiana e non». Guadagneremmo non poco a valorizzare questi approcci, anche quando sono scomodi o destabilizzanti per il nostro punto di vista credente, evitando di liquidarli frettolosamente come rielaborazioni culturali forzate. L’appropriazione critico-creativa del testo biblico – che chiamiamo “riscrittura” – mette in evidenza come esso non sia solo il diario di Dio, ma anche «il diario dell’umanità» (Boris Pasternak), che continua a trovare in esso una lente potente per osservare l’umana ricerca di senso e un orizzonte della propria autocomprensione. L’appropriazione ininterrotta della Bibbia, non solo all’interno ma anche all’esterno della chiesa, rafforza paradossalmente il suo potenziale di seduzione e diffusione: per questa via continua a essere un punto di riferimento per la verità.

Jean Grosjean (1912-2006), che Qiqajon presenta coraggiosamente al pubblico italiano con questo libro, nella delicata ed efficace traduzione di Emanuele Borsotti, è stato uno dei più brillanti riscrittori di testi sacri che il XX secolo abbia conosciuto. Con un bagaglio culturale eccezionale, in cui spicca la sua padronanza ingegnosa delle lingue e delle culture del mondo antico, Grosjean si è affermato come uno dei creatori decisivi dell’epoca contemporanea, anche se rimane una figura segreta, emarginata, quasi anonima.

In un libro di interviste intitolato Araméennes (1988), Grosjean riassume la sua ambizione principale in una formula memorabile: arrivare a toccare «il fondo umano originario». Questo fondo – lo identifica senza esitazione – è costituito dal linguaggio. Ecco perché, ad esempio, lo scrittore traduce l’incipit del Vangelo secondo Giovanni con una scelta lessicale non tradizionale: «In principio era il linguaggio». Un linguaggio d’origine, ma non un linguaggio statico, bensì un linguaggio in circolazione vertiginosa e generativa: il linguaggio umano su Dio, il linguaggio di Dio rivolto all’uomo. Jean Grosjean non ha scritto solo Il Messia. Ha scritto, con lo stesso tono di narrazione intima e fulgore poetico, di Elia, Dario, Pilato, Giona, la regina di Saba o Sansone.

Potremmo dire che ognuna di queste opere è una piccola teologia narrativa che ci insegna a ri-conoscere quella parte di ignoto che la conoscenza custodisce dentro di sé e non può facilmente rimuovere. Ma Il Messia è un testo indimenticabile. Raccontando i quaranta giorni di Cristo risorto nel periodo che intercorre tra l’evento pasquale e l’Ascensione, Grosjean ci trasporta in un’atmosfera che ricorda i dipinti di Caspar David Friedrich. E, come in quel caso, è sbagliato dire che ci troviamo di fronte a una messa in scena irreale. Non ci troviamo di fronte: ci ritroviamo all’interno. Questo non è l’irreale: è il reale più puro. Ce lo dice il nostro cuore, quando inizia a battere perché si vede intento a riscrivere «l’ora più bella di tutta la storia umana».