Agorà

COMUNIONE E LIBERAZIONE. ​Ries: uomo e sacro, legame imprescindibile

martedì 21 agosto 2012
Dei tre, uno qui al Meeting è considerato il “professore” per eccellenza, ma quanto ad autorevolezza anche gli altri due non scherzano. Lunedì, cinque del pomeriggio, sala affollata nonostante il caldo incombente, titolo latino non scoraggia affatto l’affluenza: Homo religiosus. O, meglio, relighiosus, secondo le norme in voga tra gli accademici dell’Europa settentrionale. Julien Ries, del resto, viene dal Belgio. È lui il “professore” al quale si riferisce Emilia Guarnieri, presidente della fondazione alla quale il Meeting fa capo, definendolo il padre dell’antropologia religiosa. Creato cardinale da Benedetto XVI nel gennaio scorso, il novantunenne Ries ha partecipato a 17 edizioni del Meeting e per la sua diciottesima presenza si manifesta in effigie, attraverso un’intervista raccolta da Roberto Fontolan. Con la chiarezza che contraddistingue la sua opera, argomenta come e perché l’essere umano non possa prescindere dal legame con il sacro, sottolinea l’elemento specifico dell’antropologia biblica (creatore di immagini, l’uomo scopre di essere a sua volta concepito a immagine e somiglianza di Dio), sintetizza in poche battute il concetto di ierofania. «È la percezione – spiega – di qualcosa che va oltre l’esperienza ordinaria e che non può essere compreso senza soffermarsi a riflettere». Il confine tra l’homo religiosius, che si manifesta in ogni epoca e in ogni cultura, e l’homo a-religiosus nostro contemporaneo sta tutta in questo smarrirsi dello sguardo, in questa indifferenza davanti al mistero.È il motivo, ribadisce Ries, per cui il progetto di una nuova evangelizzazione deve necessariamente partire dalla riscoperta di questa domanda di senso. Che si ritrova, non a caso, nella testimonianza del secondo professore, il giapponese Shodo Habukawa, che conquista subito la platea con un clamoroso “bonasera” dal lievissimo sentore romanesco. Anche lui è un veterano dell’appuntamento riminese di fine estate, al quale prese parte nel 1988 dopo l’incontro con don Giussani. Ed è lui il curatore della mostra sul monte sacro al buddhismo shingon, il Koyasan, da cui il fondatore di Comunione e liberazione era rimasto conquistato. «L’immagine della divinità dalle mille braccia aveva subito suscitato in lui una riflessione sulla misericordia di Dio, che cerca di salvare l’uomo in ogni modo», ricorda Habukawa, che nell’ottobre dello scorso anno è stato protagonista della trasferta del Meeting in Giappone. Il suo intervento è intessuto su una fitta trama di rimandi fra tradizione buddhista e avvenimento cristiano, il cui punto di incontro sta nella volontà di «spalancare il cuore alla realtà nella sua interezza».Tocca al terzo professore, e cioè a don Stefano Alberto, docente di teologia alla Cattolica di Milano, rivelare un episodio che spinge ancora più in là questa consonanza. Commosso dall’affetto che Habukawa gli aveva dimostrato in occasione di una visita in Italia, don Giussani aveva infatti detto a chi gli stava accanto: «Se fosse vissuto duemila anni fa, e se avesse incontrato Cristo, quest’uomo sarebbe stato uno degli apostoli». Già negli interventi precedenti i riferimenti a Cl non sono mancati, ma è nelle parole di “don Pino” (come qui tutti lo chiamano) che la questione torna a essere posta nel modo più radicale. Altro che Meeting astratto, altro che appelli all’“infinito” per parlare d’altro. E, soprattutto, altro che “scelta religiosa” intesa come via di fuga. «L’infinito è concretezza», insiste Alberto, accompagnando il suo discorso con continui riferimenti al “Senso religioso”, l’opera capitale di Giussani. La scelta, ancora una volta, è tra «una ragione che si chiude alla realtà e il cuore che si apre alla totalità del reale». Basta decidersi, dopo di che tutto diventa interessante. Come dire che, fatto salvo l’indiscutibile, di tutto si può discutere.