Agorà

VATICANO. Resurrezione risorta

Roberto I. Zanini venerdì 13 aprile 2012
Concluso il restauro conservativo che restituisce i colori originari all’immensa scultura di Pericle Fazzini nelalcuno sostiene che Peri­cle Fazzini sia stato capace di dare immagine e mate­ria all’ansia evangelizzatri­ce di Paolo VI. E che Papa Montini avesse una particolare predilezio­ne artistica per lui lo si comprende dall’insistenza con la quale lo cercò per affidargli la realizzazione dell’opera che avrebbe dovuto de­corare la grande Aula delle udienze che lo stesso pontefice aveva affi­dato nel 1964 a Pier Luigi Nervi. Prima lo cerca nel 1965 chieden­dogli un bozzetto senza un tema specifico; poi nel 1972, dopo l’i­naugurazione dell’Aula, assegnan­do il tema della Resurrezione . E poco conta che in quei sette an­ni si sia pensato anche a Marc Chagall, con l’i­dea di fargli rea­lizzare una grande vetrata decorata. Il connubio fra Paolo VI e Faz­zini è tutto centrato sulla necessità di portare Cristo al mondo, sull’ur­genza di evangelizzare una moder­nità che, soprattutto nelle sue for­me artistiche, si era troppo distan­ziata dalla verità e dalla luce della fede. «La fede è il movente della speranza e la speranza è Dio e quando ho lavorato a La Resurre­zione Dio era dentro di me», ebbe a dire lo scultore qualche tempo pri­ma di morire nel 1987. Una storia affascinante, quella dell’immensa scultura bronzea che domina quel­la che oggi viene giustamente chia­mata «Aula Paolo VI». Una storia ri­percorsa nel volume Resurrezione fucina di fede (edizioni GeMar) che è stato presentato ieri in Vaticano a testimonianza degli appena con­clusi lavori di restauro conservati­vo dell’opera di Fazzini. Nell’occa­sione – insieme al cardinale Gio­vanni Lajolo, presidente emerito del Governatorato Vaticano, e a monsignor Paolo De Nicolò, reg­gente della Casa Pontificia – c’era­no il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, il preside della facoltà di Architettura della secon­da università di Napoli (struttura che ha coordinato il lavoro scienti­fico di restauro) Carmine Gambar­della e Antonio Del Giudice, re­sponsabile del restauro. Nei fatti La Resurrezione di Fazzini se non è la scultura uni­versalmente più conosciuta è certamente la più vista, aven­do fatto da sfondo a decen­ni di riprese te­levisive in mon­dovisione delle grandi udienze del Papa e di avvenimenti culturali di livello internazionale. Ed è probabilmente una delle più imponenti opere artistiche in bronzo mai realizzate, con i suoi 400 quintali di metallo, 18 metri di lunghezza, sette di altezza e quat­tro di profondità. Richiese cinque anni di lavoro intenso, fra il 1972 e il 1977, che sottoposero lo scultore a un grande stress, fisico e spiritua­le. Appena concluso il grande boz­zetto in polistirolo in scala uno a u­no, scolpito (se così si può dire) di suo pugno e montato nell’allora chiesa sconsacrata di San Lorenzo in Piscibus su via della Conciliazio­ne, nell’agosto 1975 Fazzini viene colpito da una trombosi che ri­chiede un lungo periodo di riabili­tazione, durante il quale però non cessa di seguire la sua creatura. Dal polistirolo, pezzo per pezzo, tutti numerati, viene eseguita la fusione in lega variabile (secondo le indi­cazioni del maestro) di rame, sta­gno e zinco, così che nei fatti l’ope­ra risulta, come ha rilevato monsi­gnor De Nicolò, «un dialogo sa­piente di bronzo e ottone». Dialo­go che la ripulitura del restauro fa riemergere nello splendore origi­nario, con i gialli dell’ottone che il­luminano il volto, il torace e le ma­ni del Cristo tenero e amorevole, scaturito a nuova vita dall’oscurità della morte, in un dinamismo che lo conduce verso il cielo, ma non lo distacca dalla terra e dalla sorte de­gli uomini. «La terra tremò, sta scritto nel Vangelo, quando Cristo morì – scrive lo stesso Fazzini – ma io ho immaginato la Resurrezione dall’uliveto, successiva a una cata­strofe: Cristo vola via spinto dal vento, si libera dal velo mortuario... Cristo risorto dalle rovine... che non vuole considerare il suo ab­braccio col Padre come un addio agli uomini». Cristo emerge da un intrico di rami, di radici, di materia che verso l’esterno si trasforma in nuvole e saette, in una sorta di e­splosione nucleare che simboleg­gia la morte nella sua maligna po­tenza distruttiva. Per trasportare nell’Aula Nervi le centinaia di pezzi in metallo cavo servono due tir per carichi speciali. Conclusa la conva­lescenza, Fazzini segue personal­mente le varie fasi della saldatura che richiede quasi due anni. Un la­voro improbo. Così come la co­struzione del bozzetto si era svolta nell’aria irrespirabile densa dei va­pori del polistirolo fuso, l’edifica­zione in bronzo si realizza fra i fu­mi e i bagliori della fiamma ossi­drica, che fonde le leghe metalli­che. Con in più le difficoltà date dal fatto che la scultura è autopor­tante. A testimoniare la fatica di tecnici e fonditori, come è emerso dal restauro, c’è un piccolo pezzo bronzeo, collocato probabilmente per ultimo, con incisa la parola «Fi­ne ». Mentre in alto il vertice di una saetta, posta in posizione defilata, porta incisa la firma di Fazzini. Il quale, parlando di questa scultura, disse: «È stata una grande preghie­ra », in essa «ho dato tutto me stes­so, a volte lavorando come in tran­ce... come se qualcosa sopra di me guidasse la mia mano e il mio cer­vello perché potessi raggiungere il cielo».