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La recensione. Il Requiem di Verdi e di Currentzis: un atto di fede nella musica

Alessandro Beltrami domenica 14 aprile 2019

Teodor Currentzis dirige il Requiem di Verdi nella chiesa di San Marco a Milano (Silvia Lelli/Società del Quartetto)

Se c’è un legame indissolubile tra una partitura e un luogo è quello tra il Requiem di Verdi e la basilica di San Marco a Milano. Qui il capolavoro fu eseguito per la prima volta il 22 maggio 1874, diretto dall’autore. Un legame che deve avere sollecitato Teodor Currentzis, il quale venerdì sera nella chiesa ha tenuto l’unica tappa italiana (organizzata dalla Società del Quartetto) del tour mondiale con la sua musicAeterna dedicato alla partitura verdiana, ripresa in diretta tv e registrata.

Prima del concerto una voce annuncia la richiesta del direttore greco che non si applauda né all’inizio né alla fine «per preservare il valore spirituale dell’opera». L’alone che circonda la “comune musicale” di Perm e lo stesso direttore-sacerdote, fanno presa sul pubblico. Ma la musica è sostanza. Perché l’interpretazione del Requiem verdiano è impressionante per chiarezza di visione e cura delle parti: grazie anche a una perfetta sintonia di orchestra e coro ma anche dei solisti (Zarina Abaeva, Ève-Maud Hubeaux, Dmytro Popov e Tareq Nazmi: tutti eccellenti) che il direttore porta del tutto dentro la sua idea.

Currentzis si è posto le domande che si rincorrono da sempre sulla partitura: è “opera”? È musica sacra? Le risposte che dà sono precise. Nel Requiem Verdi, con una serie di scelte anticonvenzionali sia rispetto all’opera che alla musica chiesastica, individua uno spazio nuovo per lui di straordinaria libertà perché fortemente simbolico, e insieme dotato di elementi certi perché ancorato alla parola. Currentzis lo pone in evidenza e così facendo mostra una radice teatrale che, svincolata dalla trama, si fa racconto nella sua essenza.

È una azione completamente interna alla struttura del suono. Currentzis lo tratta integralmente sotto il profilo plastico: densità, proiezione, massa. In questa tridimensionalità si muovono strati e faglie mentre i dettagli acquistano rilievo inusitato: ma tutto converge organicamente in una tensione del suono inteso come vibrazione dello spazio, dalla soglia dell’inudibile del Requiem aeternam, ai muri sonori che si abbattono sul pubblico.

Se il colore generale è bronzeo, il controllo sulla massa del suono modella anche tra i fortissimo diverse temperature e microdinamiche precise. Currentzis valorizza la scrittura di ogni passaggio: la trasparenza ritmica del contrappunto del coro, la struttura scenica dei vari numeri negli stacchi di tempo, il peso dei silenzi. Il cataclisma del Dies Irae è un evento naturale, un uragano che Currentzis tratta in modo decisamente naturalistico. Una lettura antimetafisica suffragata da quella del Libera me Domine – ricapitolativo all’ascolto, ma seme di tutto l’organismo – che illumina l’intera partitura. Nel suo Requiem Verdi, dice Currentzis e in modo convincente, mette solo la voce dell’uomo. Dio non c’è. È un Requiem laico, ma non è un Requiem disperato perché allo stesso tempo è un grande atto di fede nella musica. A lei è affidata la richiesta di salvezza. Nel suo essere totalmente interno all’uomo è un Requiem morale.

Quello di Verdi è il primo, e con largo anticipo, dei Requiem del ’900 perché come questi è una grande metafora. Se dunque è un atto di fede nella musica, condiviso da Verdi e da Currentzis, alla fine non ci possono essere applausi ma solo il silenzio: ed è un silenzio interminabile, densissimo, che satura lo spazio fino a sostituirsi ad esso. Il silenzio al termine della storia.