Agorà

REPORTAGE. La Valtellina di Leonardo

Enrico Fumagalli venerdì 8 luglio 2011
«In testa della Voltolina è le montagne di Bormi, terribili, piene sempre di neve; qui nasce ermellini. A Bormi sono Bagni». Questa sintetica cronaca dell’alta Valtellina, con succinte note turistiche e naturalistiche, risale a più di cinquecento anni fa. La vergò nel 1493 Leonardo da Vinci. A cinque secoli di distanza il segreto del successo di questo spicchio di Lombardia è ancora racchiuso in quei brevi cenni: severi versanti montani e creste di granito, vette inaccessibili, ghiacciai e nevi perenni, una pregiata fauna alpina e bagni termali. Ciò che manca alla sintesi leonardesca è quel che l’uomo è andato costruendo con le sue mani nel corso dei secoli successivi, ossia il paesaggio unico, che caratterizza il lato assolato della media Valtellina, dove l’obliqua geometria del versante si scioglie in una sequenza interminabile di terrazze a vigneto. Un paesaggio maestoso. Un’impresa immane che ha ridisegnato il pendio in una sinfonia di linee curve, in un mosaico di piani terrazzati su cui le vigne danno frutti prodigiosi. Si potrebbe parlare a buon titolo di «viticoltura eroica», espressione di un sentire legato alla terra e di una vicenda storica collettiva. Qui si faceva vino già nell’Alto Medioevo, grazie all’azione propulsiva in campo agricolo delle proprietà monastiche – e in Valtellina erano molte, da Sant’Ambrogio di Milano a Saint Denis di Parigi -, ma fu in l’Età Moderna, con la conquista dei mercati d’Oltralpe, che il vino della Valtellina si ritagliò uno spazio e un’immagine di qualità mai venuta meno. Ma produrre vino su questi vertiginosi terrazzamenti, spesso accessibili solo a piedi con una gerla sulla spalle, costa molto più che altrove e i prezzi del vino spesso non arrivano a coprire i costi. Chi ne fa le spese? I vignaioli, costretti ad accettare dalle cantine compensi che non riescono a remunerare adeguatamente la fatica di una vigna arrampicata sul cielo.Le porte della Valtellina sono in cima al Lago di Como, dove i fiumi Adda e Mera, che discendono dalla Valtellina e dalla Valchiavenna, ritagliano la zona umida del Pian di Spagna. Guardato a vista dagli arcigni profili granitici del Sasso Manduino, questo è da sempre uno degli snodi geografici più importanti della Lombardia, perché vi s’incrociano le strade che salgono dalla pianura lungo il lago e vanno ai passi alpini. Di qui passavano le merci dirette allo Spluga e al Nord Europa, i tessuti di Fiandra che andavano a Venezia scavalcando le Orobie con la Strada Priula. Qui i pellegrini, che scendevano a Roma, coglievano i primi presagi di Mediterraneo. Non è un caso che a pochi passi da qui sia sorta l’abbazia di San Pietro in Vallate, sebbene a ridosso della sua principale direttrice di traffico. La si raggiunge da Piagno, frazione di Cosio Valtellino, con una breve strada selciata che si perde nella quiete di prati e boschi di castagno, che fanno da quinta a un complesso di preziosi ruderi millenari, giacché l’elegante abbazia romanica fu iniziata nel 1078 dai monaci di Cluny e abbandonata già nel XIV secolo.Passato Morbegno, centro di vocazione commerciale, la Valtellina dei vigneti è annunciata da un altro santuario cristiano, quello della Madonna della Sassella, inserita nelle vigne che lambiscono la periferia di Sondrio. La chiesa, edificata nel XV secolo e ampliata a fine Seicento, è raggiunta da un itinerario a piedi che raggiunge il piazzale antistante il santuario, detto «la ringhiera della Valtellina».Oltre Sondrio i vigneti continuano a tappezzare il versante retico, mentre il versante orobico, rivolto a nord, appare come un tumultuoso susseguirsi di foreste e di selvagge valli interne, interessate dalla presenza di numerosi alpeggi, come avviene nelle Valli del Bitto (di Gerola e di Albareto), luoghi eletti – ma non più esclusivi, da quando l’area Dop è stata allargata verso il fondovalle – di produzione di uno dei più grandi formaggi d’alpe delle nostre montagne, sua maestà il Bitto.Tirano è, insieme a Morbegno, uno dei due poli produttivi della valle, dove si è sviluppata negli ultimi decenni un’industria leggera rivolta al consumo e dove è confluita parte della manodopera che nello stesso periodo ha lasciato l’agricoltura; un’altra parte ha intrapreso un percorso più lungo, quello dell’emigrazione.A Tirano siamo nel punto di raccordo tra media e alta valle, segnato dalla confluenza della Val Poschiavina; da qui in poi i meli, concentrandosi nell’ormai stretto fondovalle, si sostituiscono alle viti. L’ingresso in città è segnato dal colpo d’occhio sulle superbe linee rinascimentali del santuario della Madonna di Tirano, insieme meta di pellegrinaggio e fulcro dell’economia locale. Il santuario sorse fuori dall’area urbana, nel luogo esatto – un campo di fichi – in cui il 29 settembre 1504 la Madonna apparve al tiranese Mario Omodeo. La richiesta della Vergine di costruire un tempio a Lei dedicato è all’origine della costruzione della chiesa, iniziata l’anno successivo e terminata nel 1584. L’edificio è caratterizzato da una vivace facciata in marmi colorati, conclusa da un frontone semicircolare e aperta in uno splendido portale, mentre l’interno è un tripudio di stucchi, dipinti e decorazioni. Per secoli attorniata da un’area non costruita, la grandiosa struttura doveva risaltare vividamente fra il verde di prati e coltivi, come doveva convenirsi alla sede della patrona della Valtellina.