Agorà

La mostra. Renato Casaro: «I miei manifesti per i sogni del cinema»

Alessandro Beltrami venerdì 18 giugno 2021

Il bozzetto di Renato Casaro per "Lo chiamavano Trinità"

C’era una volta in America, Un borghese piccolo piccolo, Balla coi lupi. E poi Rambo, Io sto con gli ippopotami, Sapore di sale. Film molto diversi tra loro che però hanno segnato l’immaginario di più generazioni di spettatori. Ad accomunarli è la firma sui loro manifesti: Renato Casaro. Quelli citati sono solo una manciata dei 170, scelti tra il migliaio realizzati in carriera, esposti nella mostra dedicata a «l’ultimo cartellonista del cinema » con cui la Collezione Salce a Treviso fino al 31 dicembre festeggia la nuova sede di Santa Margherita: una struttura che, abitando in modo intelligente e rispettoso l’invaso della chiesa gotica, fonde spazi espositivi e un avanguardistico deposito automatizzato per i 50mila manifesti pubblicitari che rendono unico questo museo nazionale.

Una festa “in casa” dato che Casaro, classe 1935, è nato a Treviso e a Treviso ha deciso di tornare dopo una lunga carriera in giro per il mondo. Peplum e spaghetti western, film d’autore (Argento, Bellocchio, Cavani, Comencini, Coppola, De Palma, Germi, Lelouch, Olmi, Rosi, Truffaut, Verdone…) e produzioni hollywoodiane, non manca nulla al catalogo di Casaro: «In certi periodi si realizzava un manifesto alla settimana, festività comprese» racconta l’artista, che aggiunge ridendo: «Ma non c’era tanta concorrenza… ». Uno studio a Roma, poi altri in Germania e in Spagna, sempre in volo per Londra o gli Stati Uniti, disegnando ovunque, anche in albergo: «Ogni mercato aveva esigenze molto diverse, ma noi italiani all’estero eravamo molto apprezzati».

Nessuna scuola, nessuna accademia, solo talento, passione e gavetta: «Sono nato per dipingere. Da ragazzino disegnavo ovunque, sui quaderni, suoi libri, sui banchi. Il cinema era il pane quotidiano, passavamo ore in sala. E così ho avuto modo di studiare il cartellonismo italiano. Era il dopoguerra e intanto qui a Treviso disegnavo pubblicità commerciali. Ma io sognavo di fare cinema, cinema e basta. Sono arrivato a Roma a 19 anni, nel 1954». A Cinecittà Casaro si adegua alle convenzioni pittoriche in uso ma presto sviluppa un linguaggio proprio, ben riconoscibile: «Mentre gli altri erano fermi, io ho iniziato a ragionare sul problema dell’immagine, a lavorare di sottrazione, introducendo novità tecniche come l’aerografo per dare uniformità e creare effetti fotografici».

È Casaro a contribuire in modo determinante all’immaginario degli spaghetti western in tutte le sue declinazioni: da Sergio Leone, con il quale lavora assiduamente a partire da Per un pugno di dollari, fino a Lo chiamavano Trinità (Casaro avrebbe poi realizzato tutti manifesti della coppia Bud Spencer - Terence Hill). «Mi dissero: 'In una scena Trinità si fa portare steso su una barella trainata dal cavallo: preparaci lo storyboard». Disegnai così un bozzetto (presente in mostra, ndr) con Terence Hill sdraiato con il cappello calato sul volto: inventai il personaggio e fu una rivoluzione. Terence Hill dice che se non ci fossi stato io forse il film non avrebbe avuto lo stesso successo».

Casaro per Leone disegna il suo capolavoro, C’era una volta in America, un manifesto elegantissimo che risolve il problema di condensare in un’immagine «una storia gigante, che attraversa generazioni. In basso dei ragazzini in strada, lo sguardo segue il ponte di Brooklyn sullo fondo, sale e li ritrova adulti come sagome d’oro disposte a calice. E ci fu chi si lamentò che mancava la donna…». Lì accanto c’è un’altra versione, più tradizionale. E con la donna: «Si disegnava un manifesto per le prime visioni nelle città e poi altri per le seconde visioni giù fino alle sale parrocchiali: le varie versioni erano mirate al contesto culturale in cui il film veniva proiettato».

Il manifesto di Renato Casaro per "Il tè nel deserto" di Bernardo Bertolucci - Collezione Renato Casaro

Trovare un’immagine è un processo complesso che può essere seguito nel dettaglio nella sezione della mostra nella sede di San Gaetano, che presenta il percorso dalle diverse idee ai bozzetti al prodotto finito di manifesti per film come Il nome della Rosa di Annaud, L’uomo delle stelle di Tornatore e soprattutto due film di Bernardo Bertolucci, altro regista con cui Casaro ha lavorato intensamente, come L’ultimo imperatore e Il tè nel deserto. Quest’ultimo è l’altro grande capolavoro di Casaro: una figura misteriosa in vesti tuareg che avvolge un bambino di schiena. «Il tè nel deserto è nato dalle conversazioni con Bertolucci. Riassumere la storia sarebbe stato troppo complicato, meglio una dimensione più evocativa. Ho lavorato di sottrazione, indagando i contenuti psicologici e arrivando a omettere i volti degli attori, Debra Winger e John Malkovich. Bertolucci era un po’ preoccupato perché temeva che violassimo i contratti, che spesso e purtroppo sono determinanti nella costruzione di un manifesto. Ma vinse l’idea e il manifesto andò in tutto il mondo».

In mostra troviamo cartelloni di film come La fontana della Vergine di Ingmar Bergman, Ascensore per l’inferno di Alan Parker, L’orologiaio di Saint-Paul di Bertrand Tavernier, Amadeus di Milos Forman, ma anche Flash Gordon («In America ci sono andato grazie a De Laurentiis che mi volle per i Conan. Voleva che aprissi uno studio a Los Angeles ma avevo paura di perdere la famiglia e rinunciai»). A un certo punto si fronteggiano Rambo III e Amici miei, uno dei pochi lavori in cui Casaro usa la fotografia: i volti di Tognazzi e soci sono ritagliati e incollati su molle stilizzate che saltano fuori da una scatola. Casaro innesca così un cortocircuito tra attore e immagine, trasformando il personaggio in pupazzo meccanico ed evidenziando l’amarezza di fondo della commedia di Monicelli.

Il manifesto di Renato Casaro per "Rambo III" - Collezione Renato Casaro

Il lavoro di Casaro scorre intenso fino agli inizi degli anni 90. «Poi a un tratto il telefono ha smesso di squillare. Era cambiato il mondo, non solo quello del cinema. Io ho sempre fatto tutto a mano, dalle immagini al lettering dei titoli. Per quanto capissi che il computer sarebbe stato il futuro, sentivo che non era uno strumento mio e capii che era il tempo di fermarmi ». Ma un giorno il telefono squilla di nuovo. «Era Quentin Tarantino. Mi ha chiesto di realizzare una serie di manifesti di finti spaghetti western “girati” da Leonardo DiCaprio a Cinecittà in C’era una volta Hollywood. È stato una sorta di revival, una sfida vissuta con enorme piacere».

Treviso, Collezione Salce
Renato Casaro, l'ultimo cartellonista
Treviso. Roma. Hollywood
Fino al 31 dicembre 2021