Agorà

Dibattito. Rigide, sature, fragili: soltanto più disordine può salvare le città

Alessandro Beltrami mercoledì 30 marzo 2022

La metropoli di Los Angeles

Tutti ne parlano, tutti la mettono al centro ma forse il vero motivo è perché la città non esiste più. Ne è convinto, e da tempo, Rem Koolhaas: «La città non esiste più. Poiché l’idea di città è stata stravolta e ampliata come mai nel passato, ogni tipo di insistenza su una condizione primigenia – in termini visivi, normativi, costruttivi – ha come esito inevitabile, complice la nostalgia, quello dell’irrilevanza». Continuiamo a pensare a Parigi, Londra e New York come i paradigmi della città contemporanea, invece questi sono costituiti da Atlanta e Singapore, modelli della “città generica” che si sta proiettando sulle metropoli sorte sulle tracce delle città storiche. Sono temi che l’architetto e urbanista olandese ha affrontato in testi capitali come Junkspace (dove appunto si teorizza la città generica, città senza storia spinta da una autogenesi che la costringe a divorarsi e rinascere continuamente) e il monumentale S,M,L,XL. A completamento del quadro Quodlibet ha ora raccolto i Testi sulla (non) più città (pagine 240, euro 18,00), serie di scritti – in gran parte inediti in italiano – sulla natura della città contemporanea e sulla sua “sostanza urbana” radicalmente mutata negli ultimi decenni.

Cosa caratterizza la non-più-città secondo Koolhaas? La scomparsa del centro e quindi anche della periferia, la penetrazione dell’ecologia nelle aree urbane con «l’ubiquo inserimento di prati e zone piantate ad arbusti», l’ossessione del controllo e della pulizia consumato attraverso la saturazione e la norma. «Oggigiorno qualsiasi spazio vuoto è preda della frenesia di riempire e tappare».

La progettazione del vuoto urbano è uno degli spunti più interessanti del pensiero di Koolhaas, sviluppato fin dagli anni Ottanta a Berlino accanto a Oswald Mathias Unger. Nella città ancora divisa dal Muro (a cui ha dedicato una memorabile tesi di laurea, raccontata in S,M,L,XL e recuperata giustamente in questa antologia) Koolhaas elabora l’idea di città-arcipelago che conservasse le macerie della storia in quanto «elemento più significativo della storia stessa». La metropoli, attraverso una azione di ricostruzione e decostruzione, si sarebbe così configurata come un sistema di «isole “architettoniche”, sospese in un paesaggio post-architettonico, o in una cancellazione, dove ciò che una volta era considerato città viene sostituito da un nulla sovraccarico. Il tipo di coerenza che una metropoli può raggiungere non è quella di una composizione omogenea e pianificata. Al massimo può essere un sistema di frammenti, di realtà molteplici». In questo senso la capacità di «progettare il degrado», degrado che è la caratteristica del moderno, diventa essenziale: «Solo tramite un rivoluzionario procedimento di cancellazione e la creazione di “zone libere”, veri e propri Nevada concettuali in cui tutte le leggi dell’architettura vengono sospese, sarà possibile mettere fine ad alcune delle torture inerenti alla vita urbana – l’attrito tra programma e impedimento».

Se il fideismo nell’ingegneria della pianificazione e la mitografia della rigenerazione attraverso nuova architettura restano la tendenza, forti anche di una facile presa sotto il profilo mediatico, non mancano gli esempi contrari. È il caso del Premio Scarpa 2022 al Natur-Park Schöneberger Südgelände frutto del lungo periodo di abbandono di un’immensa area ferroviaria e del successivo riconoscimento del luogo come espressione di una “natura urbana berlinese”. O ancora dei temi e dei progetti portati da Richard Sennett e Pablo Sendra in Progettare il disordine. Idee per la città del XXI secolo ( Treccani, pagine 184, euro 21,00).

È una ripresa a 50 anni di distanza degli spunti di Usi del disordine di Sennett, sociologo impegnato nella dimensione urbana, riletti al presente e accompagnati da una riflessione di tipo progettuale da parte di Sendra, giovane urbanista. Per Sennett l’urbanistica è stata sottratta alla dimensione pubblica ed è diventata terreno di gioco del capitale monopolistico. Uno scenario irrigidito da una normazione rigida e ipertrofica. Ma l’assenza di flessibilità reprime la libertà d’azione delle persone, ostacola le relazioni sociali informali e inibisce la capacità di crescita della città. Il libro propone «un modello di progettazione alternativo e sotto determinato, un city-making che per mezzo di “perturbazioni” sovverte le forme rigide».

Si respira aria di controcultura anni Settanta e utopismo anarchico. Ma è un dato di fatto che la modernità – anche dal punto di vista burocratico – non contempla il “non finito” e relega l’incompiuto e l’indeterminato in un limbo senza cittadinanza. Il nostro tempo non è più in grado di pensare qualcosa che non abbia in sé la propria conclusione e forse anche per questo la città moderna (come aveva intuito Koolhaas e ribadisce Sennett) è connotata da una fragilità dovuta all’assenza di elasticità: non prevede altra funzione da quella per cui è stata determinata. Sennett indaga come ambito vitale i territori di passaggio e le narrazioni aperte offerte dalle forme incomplete. Davvero le nostre non-più-città oggi hanno bisogno di “infrastrutture per il disordine”, spazi disponibili all’imprevisto, quelli che Sennett definisce «luoghi pieni di tempo».