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Filosofia. Dalle relazioni ai social: perché leggere Heidegger ci aiuta ancora

Adriano Fabris mercoledì 14 febbraio 2024

Martin Heidegger (1889-1976)

Da oggi, 14 febbraio, a venerdì, al Dipartimento di filosofia della Sapienza si svolgono le giornate di studio “Heidegger in Italia”, organizzate dal Centro di studi heideggeriani. Ben 26 i pensatori e gli studiosi chiamati a intervenire. Fra questi Annalisa Caputo, Massimo Cacciari, Costantino Esposito, Aldo Magris, Eugenio Mazzarella. Qui anticipiamo una sintesi dell’intervento di Adriano Fabris.

Il titolo del mio intervento al convegno su "Heidegger in Italia – Heidegger e il problema della relazione" – può essere fuorviante. Si può intendere […] accentuando il termine “problema” oppure valorizzando il concetto di “relazione”. Nel primo caso […] ci si muovei sulla scia delle critiche che da Essere e tempo in poi sono state rivolte al pensiero heideggeriano, soprattutto dal versante ebraico. Löwith, Buber, Levinas […] hanno rimproverato Heidegger di trascurare, o di fraintendere nel loro senso più proprio, le relazioni fra gli esseri umani e il vincolo etico che in esse s’impone.

Qui si vuole mettere al centro il tema della relazione attribuendolo a Heidegger, per dir così, in una maniera positiva. Far vedere che è il principio motore del pensiero heideggeriano in tutto il suo sviluppo; valorizzare una determinata idea di relazione intendendola come il problema di fondo che Heidegger affronta, come un argomento decisivo che egli eredita dalla tradizione filosofica, trasforma produttivamente e lascia in eredità alla riflessione futura. […]

Dobbiamo aver chiara la mossa teorica che Heidegger compie e grazie alla quale il tema della relazione acquisisce la sua centralità. È la mossa effettuata nei confronti di Husserl e, in particolare, rispetto alla sua dottrina dell’intenzionalità. Anche Husserl infatti, sebbene in maniera più implicita, considera la relazione come un suo problema. Rispetto all’unilateralità del legame fra soggetto e oggetto che caratterizza ad esempio l’approccio neokantiano, e nei confronti dell’incomprensibilità del fatto che possano poi incontrarsi un soggetto e un oggetto che sono inizialmente e irrimediabilmente separati, lo Husserl dei primi anni del Novecento intende il soggetto come intentio, cioè come soggetto intenzionale,e l’oggetto come intentum, come fenomeno intenzionato, predisponendoli così già a un incontro.

Tuttavia tale incontro, nell’ottica di Husserl, dipende soprattutto dal soggetto. […] Tale approccio condanna Husserl a una lettura unilateralmente conoscitiva, teoreticistica, della relazione stessa. Altri modi di pensare il nostro legame con il mondo, altri modi di essere, debbono invece venir considerati: primi fra tutti – come insegna Aristotele – quelli relativi alla praxis. È ciò che mette a fuoco, proprio con riferimento ad Aristotele, Heidegger nei primi anni Venti.

Per far sì che avvenga questo allargamento di prospettiva – col quale, si badi bene, si scopre un nuovo territorio per l’indagine filosofica, un territorio che va al di là di quello colonizzato dalle scienze modernamente intese – è necessario però compiere un ulteriore passaggio fondamentale. È necessario considerare il principio della relazione, ciò che è condizione della relazione stessa, dei termini che mette in relazione e non sul loro stesso piano […] Questo “qualcosa” che è prima, come condizione di tutte le possibili relazioni che possono essere sperimentate, Heidegger lo chiama “essere”. È dunque necessario porsi anche (e soprattutto) il problema della relazione a questa condizione di ogni relazione, nonché il problema di quell’ente che è in grado di approfondire e sviluppare tale relazione con l’essere. Questo, come sappiamo, è il tema di Essere e tempo. […]

Ma in quest’opera tale compito viene svolto solo parzialmente. Il problema della relazione che lì viene impostato e che, però, resta ancora aperto riguarda il legame tra il Dasein e l’essere in generale, nonché il modo in cui dev’essere intesa e può configurarsi la relazione tra l’essere, gli enti e il Dasein. Ciò, come sappiamo, porterà in seguito Heidegger a rovesciare, proprio per risolvere questo problema e garantire l’attuarsi della relazione, l’approccio di Essere e tempo.

A partire dagli anni Trenta diventa sempre più chiaro che è l’essere in generale, in quanto Ereignis (evento), a manifestarsi veritativamente e onto-storicamente al Dasein. […] Ora “relazione” non indica solo ciò che sta prima. “Relazione” significa ed è, propriamente, relazionarsi. In ciò e solo in ciò essa si attua nella sua verità. In ciò e solo in ciò si annuncia anche la sua differenza rispetto agli enti nella loro oggettività e staticità. E “essere” finisce per diventare il nome, precisamente risemantizzato, di questa stessa dinamica relazionale.

Potremmo ricostruire a partire da qui la riflessione di Heidegger della seconda metà degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta, soprattutto considerando la stratificazione dei trattati inediti. […] Preferisco invece, a partire da quanto messo in evidenza e concludendo il discorso, indicare alcune vie per utilizzare il pensiero heideggeriano, produttivamente, nel contesto contemporaneo.

Ciò che dobbiamo pensare oggi, ciò con cui l’indagine filosofica deve confrontarsi, è lo sviluppo tecnologico, in tutte le sue forme. Dobbiamo pensare questo sviluppo nella sua struttura, nelle sue conseguenze, nelle trasformazioni della mentalità che esso comporta. Dobbiamo pensarlo filosoficamente, cioè a partire da quelle categorie e da quei concetti che la storia del pensiero ha elaborato.

Questo è ciò che ha fatto Heidegger. Heidegger ha ripensato le categorie tradizionali in maniera creativa, per elaborare una filosofia all’altezza delle questioni che riteneva di dover affrontare: e fra queste anche la situazione in cui viviamo, permeata dagli sviluppi tecnologici. Questo è ciò che ha fatto Heidegger, nello specifico, riguardo al problema della relazione. […]

Le tecnologie mettono in opera relazioni. I programmi che consentono di farlo sono disegnati e costruiti secondo specifiche forme di relazione – quelle operazionali prodotte dagli algoritmi – e servono per attuare relazioni fra gli esseri umani (ad esempio attraverso i social), fra le macchine (ad esempio nell’IoT), e fra gli esseri umani e le macchine (ad esempio quando usiamo uno smartphone). I dispositivi utilizzati a tale scopo funzionano proprio mettendosi in relazione fra loro (cioè mettendosi in rete) e aprendo contesti di relazione (gli ambienti digitali). […]

Tutto ciò richiede di essere pensato: di essere pensato filosoficamente. È un tema su cui, anche in riferimento a Heidegger, la filosofia italiana del secondo dopoguerra si è soffermata più volte: da Paci a Severino, per esempio. Ma Heidegger, a questo proposito, ci può essere utile ancora oggi. Almeno per due motivi.

Da una parte, ci consente di approfondire nella sua complessità la dimensione relazionale in cui viviamo, evitando di ridurre la relazione a una semplice connessione. Dall’altra, il riferimento al suo pensiero ci permette di tenere presente il limite del vivere e dell’agire umani, anche quando tale limite si riflette nell’azione apparentemente illimitata delle tecnologie. Questi possono essere i modi in cui il pensiero di Heidegger può essere rilanciato, anche e soprattutto nel contesto della filosofia italiana, per fare i conti criticamente con la situazione attuale.