Agorà

Basket. Charlie Recalcati, l'ultimo dei vincenti azzurri

Antonio Giuliano sabato 31 agosto 2019

L’ex coach della Nazionale Charlie Recalcati portato in trionfo dopo il bronzo europeo del 2003

Non abbiamo vinto più nulla da quando sulla panchina della Nazionale non c’è più lui. Carlo “Charlie” Recalcati è un pezzo di storia del basket azzurro, quello che ancora portava a casa medaglie oggi pesantissime per le nostre attuali ambizioni. Milanese, classe 1945, è stato un big dei canestri, sia da giocatore, diventando una bandiera di Cantù, che da allenatore: tre scudetti con tre squadre diverse ( Varese, Fortitudo Bologna, Siena) e coach più vincente della Serie A con 546 successi. Ct dell’Italia dal 2001 al 2009, brillano nella sua bacheca il bronzo europeo (2003) e soprattutto l’argento olimpico (2004), oltre all’oro ai Giochi del Mediterraneo (2005). Al termine di mille e passa battaglie (932 solo le panchine nella massima serie), l’anno scorso ha deciso di non vestire più i panni di allenatore. Ma la passione per questo sport è rimasta quella che aveva sul parquet sebbene oggi si senta coach solo dei suoi nipoti. Alla vigilia del debutto mondiale dell’Italia è allora inevitabile oltre che di buon auspicio chiedere una “profezia” a uno dei grande saggi della nostra pallacanestro.
L’Italia torna a giocare una rassegna iridata dopo tredici anni quando, guarda caso, in panchina c’era ancora lei. Ma nelle amichevoli premondiali la Nazionale di Meo Sacchetti ha raccolto sei sconfitte su sei.
Io non sono preoccupato, sono state sconfitte diverse tra di loro. Poi, anche Meo lo sa bene, non abbiamo certo l’obiettivo di andare a medaglia. Importante è qualificarsi al Preolimpico senza passi falsi nelle prime due partite contro Filippine e Angola. Nel 2006 il mio Mondiale non metteva in palio pass olimpici e puntai sui giovani per rinnovare la Nazionale. Ma in Cina ci giochiamo la possibilità di avvicinarci a Tokyo 2020 ed è senz’altro alla nostra portata. Certo, se usciamo al primo turno sarebbe un fallimento. Ma io sono fiducioso.
Condivide i 12 azzurri scelti dal ct? Alla fine ha tagliato suo figlio Brian che quindi non era certo “raccomandato”…
Una polemica davvero sterile. Brian, che tra l’altro ho fatto esordire io in Nazionale dieci anni fa, è un giocatore che ogni allenatore vorrebbe avere: dà sempre il massimo ed è un uomo-squadra. Sacchetti ha fatto le scelte più logiche in linea con il suo modo di vedere la pallacanestro e sulla base di quanto oggi offre il nostro movimento. Ha il problema della mancanza di pivot, ma Meo ha sempre dato il meglio con squadre atipiche: è l’allenatore ideale per noi in questo momento.
Gli Stati Uniti che non schierano big rimangono comunque favoriti?
Non ne sono sicuro. Hanno comunque giocatori di valore, ma le nazionali europee hanno davvero l’occasione per vincere il titolo. Per me la favorita in assoluto è la Serbia.
Lei poi può dire di avere già battuto gli Usa, sebbene in amichevole…
Li sfidammo a Colonia in una gara di preparazione ai Giochi di Atene. Era il 3 agosto del 2004. Un evento eccezionale: vincemmo 95-78, fu la prima storica sconfitta del “Dream Team”. Il pubblico tedesco all’inizio incitava solo gli americani, erano venuti proprio per vederli dal vivo. Alla fine si entusiasmarono per la nostra vittoria. Quel successo ci diede una fiducia che ci portò all’argento olimpico. E ci rese orgogliosi come non mai di essere italiani.
Dopo di lei però non ci sono state più gioie azzurre.
Sarebbe meglio dire da quando non c’è più quella generazione di giocatori. Buona parte infatti della Nazionale che con me ha fatto Europeo e Olimpiadi aveva già vinto nel 1999 l’oro continentale con Tanjevic. Solo che un minuto dopo aver vinto l’argento ai Giochi del 2004 mi permisi di dire che dopo la generazione dei Galanda, Basile, Marconato, ecc… c’era un vuoto preoccupante…
Un grido d’allarme profetico…
Purtroppo sì. Ma non fui capito. Venne considerato come un modo per esaltare la nostra medaglia. Mentre invece dopo aver girato l’Italia e visto tutti i raduni giovanili ero giunto alla conclusione che il movimento aveva bisogno di una scossa. Purtroppo però abbiamo investito sempre meno nei vivai.
Come si può invertire la rotta? Non ho una ricetta, ma obbligare le squadre a mettere a referto un tot di giocatori italiani non ha dato i risultati sperati. Il problema non è di garantirgli il posto fisso ma di farli giocare. Bisogna premiare le società che lo fanno. E trovo molto positivo che i nostri vadano a giocare all’estero. Le altre Nazionali che ci superano nel ranking hanno tanti giocatori fuori. Noi invece ne abbiamo ancora pochi di livello internazionale.
Se la Nazionale o un club la richiamasse in panchina, rivedrebbe la sua decisione di ritirarsi?
No, è stata una valutazione molto ponderata e non ho cambiato idea. A 74 anni sto molto bene ma non vuol dire star bene come a 60… Potrei casomai dare una mano nello staff dirigenziale di una società, questo sì mi piacerebbe farlo. Ma intanto sono felice di godermi la famiglia. Sempre in giro per il basket, mi sono ritrovate le mie due figlie già adulte senza accorgermene. Per cui poi non ho voluto ripetere lo stesso errore coi miei nipoti.
Del resto il colpo di fulmine per la pallacanestro risale nel suo caso a più di sessant’anni fa…
E dire che non io ho scelto il basket, ma è stato lui a scegliere me. Io sono cresciuto all’oratorio e fino a quando il Centro giovanile Pavoniano non ha messo su un campo coi canestri nemmeno sapevo cosa fosse la pallacanestro. A 12 anni scoprii questo sport grazie ad Arnaldo Taurisano che reclutò i miei amici nel quartiere e fu l’allenatore che mi lanciò. Ma devo molto anche al vero animatore di quel centro.
Chi?
Fratel Brambilla, il laico pavoniano che per molti fu un vero padre. Eravamo tutti bravi ragazzi ma era il periodo del dopoguerra e i genitori lavoravano dalla mattina alla sera. Mio padre stesso lavorava anche di sabato e domenica. E fratel Brambilla fu una guida importante. Ma certo non avrei fatto la carriera che ho fatto se non avessi incontrato mia moglie. Quest’anno abbiamo festeggiato cinquant’anni di matrimonio, è stata lei a prendersi cura delle mie figlie e a portare avanti la famiglia quando ero fuori.
Immagino non sia facile scegliere la soddisfazione più grande tra tanti record e tante gioie.
Ne ho avute tante ma mi ha sorpreso l’Ambrogino d’oro del Comune di Milano nel 2013, perché ero residente a Cantù da tanti anni e non ho mai giocato per la mia città: è questo l’unico rimpianto essendo stato tifoso dell’Olimpia da ragazzino. Tra tutte le vittorie ricordo però il bronzo europeo in Svezia. Il talento di Pozzecco sarebbe arrivato l’anno successivo, quella squadra però è la dimostrazione che quando c’è vera unità del gruppo il totale è superiore alla somma dei valori individuali. In linea con la frase che feci stampare anche nello spogliatoio di Varese…
Quale?
Riconoscere i propri limiti non è un segno di debolezza, ma al contrario di forza. È la chiave per accettare anche i limiti dei tuoi compagni e così esser pronto ad aiutarli. E se il tuo compagno alla fine dell’anno sarà migliorato sarai un vincente indipendentemente dal risultato della squadra.