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La mostra. Raffaello, Giulio II e Bologna: l'arte tra potere e (poca) religione

Giancarlo Papi martedì 11 ottobre 2022

Particolare del ritratto di Giulio II dipinto da Raffaello

Tu dai un Raffello a me e io do un Raffaello a te. E così, frutto di uno scambio tra National Gallery di Londra, che ha ricevuto il prestito dell’Estasi di Santa Cecilia per una mostra che ha riscosso grande successo, e Pinacoteca Nazionale di Bologna, giunge nella città felsinea il Ritratto di Giulio II del maestro urbinate. L’opera riveste un particolare significato per Bologna, perché il papa della Rovere fu colui che ricondusse la città sotto il dominio della Chiesa, mettendo fine al governo della famiglia Bentivoglio che l’aveva governata nel corso del XV secolo, cambiandone radicalmente il corso della storia.

È un olio su tavola, un capolavoro della ritrattistica rinascimentale, commissionato da Giulio II a Raffaello e realizzato a Roma intorno al 1511-1512. A colpire nel ritratto è l’interpretazione che Raffaello propone del Pontefice e l’attenzione alla sua psicologia. «Si tratta – afferma Maria Luisa Pacelli, direttrice della Pinacoteca – di un modello compositivo che rompe con la tradizione: qui Raffaello coglie Giulio II a mezza figura, un po’ curvo e girato verso destra, presente, sebbene assorto e affatto ieratico. Il Papa sembra essere perfettamente a suo agio tra i simboli della sua funzione, ma come distaccato da essi. Un uomo di Dio e di potere, ma perfettamente conscio delle difficoltà del suo regno terreno». Vasari, in proposito, parla dell’opera, ammirata nella basilica di Santa Maria del Popolo a Roma, come di un ritratto «tanto vivo e verace, che faceva temere… a vederlo, come se proprio egli fosse il vivo».

Il dipinto, passato nel 1608 nella collezione Borghese, era stato in seguito venduto all’imperatore Rodolfo II e da allora se ne persero le tracce. Nel 1976 uno studioso della National Gallery di Londra sciolse l’enigma del dipinto che era stato acquistato nel 1824 dal museo e che si trovava in Inghilterra dalla fine del Settecento. Fu notato infatti sulla tavola un numero d’inventario, il 118, che corrispondeva a quello della Galleria di Scipione Borghese. Le analisi scientifiche hanno poi confermato l’autografia raffaellesca e un restauro ha restituito la qualità pittorica dell’opera, fino ad allora nascosta sotto strati di vernice ingiallita. Oltre all’originale londinese, si conoscono diverse copie dell’opera, alcune anonime, altre di grandi artisti come quella attribuita a Tiziano conservata alla Galleria Palatina di Firenze. Si tratta di esemplari che testimoniano dell’interesse per il personaggio effigiato e per il modello interpretativo raffaellesco che rimane dominante nella ritrattistica dei papi per la gran parte degli artisti nei secoli successivi.

Ora questo ritratto è al centro della mostra Giulio II e Raffaello. Una nuova stagione del Rinascimento a Bologna ospitata nella Pinacoteca Nazionale fino al 5 febbraio, e già dal titolo si intuisce che l’opera è la protagonista di un progetto espositivo che intende mettere in luce il periodo rinascimentale bolognese, a lungo e fino a oggi non considerato alla stregua dello splendore medievale e tanto meno dei fasti seicenteschi valorizzati da personalità quali Roberto Longhi, Denis Mahon, Cesare Gnudi con i Carracci, Guercino, Reni…

L’esposizione, curata da Maria Luisa Pacelli, Daniele Benati ed Elena Rossoni (catalogo Silvana), rivede l’intera sezione della Pinacoteca dedicata al Rinascimento con un nuovo itinerario che approfondisce il percorso artistico bolognese tra XV e XVI secolo, fino all’incoronazione di Carlo V, partendo dall’arte fiorita durante il governo dei Bentivoglio, intorno alla metà degli anni 70 del Quattrocento.

In quel periodo Bologna conosce una fase di tranquillità e di benessere, e la congiuntura favorevole assieme al mecenatismo di corte creano un ambiente propizio per lo sviluppo delle arti attirando l’interesse di pittori provenienti da altri centri, come i ferraresi Francesco del Cossa e Ercole de Roberti. Sono loro a decorare la cappella Garganelli tra il 1477 e il 1485, impresa pittorica tra le più straordinarie del Quattrocento bolognese definita da Michelangelo «una meza Roma de bontà». E mentre tra i bolognesi emergono personalità quali Francesco Francia e Amico Aspertini (numerose le loro opere in mostra), il positivo clima culturale che caratterizza l’aprirsi del nuovo secolo favorisce l’arrivo a Bologna di opere del Perugino e di Filippo Lippi.

Ma qualche anno dopo, esattamente nel 1506, tutto cambia con l’arrivo di Giulio II, il 'papa guerriero', che entra in città con le sue truppe, caccia i Bentivoglio e afferma il proprio dominio, come scrive Pacelli in catalogo, «non solo con l’azione militare e amministrativa, ma anche attraverso un programma di interventi coerenti con la politica di propaganda artistica promossa nella capitale». È così che gli artisti che operano all’epoca lasciano la città o vengono emarginati e al loro posto sono chiamati i protagonisti delle grandi committenze romane quali Bramante e Michelangelo che dettano i nuovi canoni estetici. Che sono dirompenti quando nella seconda metà del Cinquecento arrivano alcune opere di Raffaello, quali l’Estasi di Santa Cecilia, collocata all’epoca in San Giovanni in Monte e ora stabilmente in Pinacoteca, che ha avuto un enorme influsso sulla cultura pittorica bolognese fino ai Carracci, Guido Reni e per tutto il Seicento.