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Scenari. Nikolaj Schultz: «Racconti nuovi per agire sul clima»

Eugenio Giannetta mercoledì 29 marzo 2023

Il sociologo Nikolaj Schultz

Un diario di bordo, un’indagine auto-etnografica, ma anche una nuova direzione per la letteratura, ovvero un genere ibrido in cui, come dice il sociologo Bruno Latour, « non si tratta di un io che si adatta al mondo sociale, ma di un io che non sa più cosa farsene di un mondo naturale che lo consuma». Questo è Mal di terra (wetlands books, 96 pagine, 16 euro) di Nikolaj Schultz, sociologo dell’Università di Copenhagen, ospite dopodomani, alle 12, di “Incroci di civiltà” per raccontare il suo viaggio attraverso l’antropocene, dove letteratura e analisi teorica si mescolano e la condizione climatica viene indagata sulla base di un racconto che va da Parigi a Porquerolles, dall’ondata di calore alla scomparsa di un’isola, dalla lotta per il sonno a quella per il territorio. Dice Slavoj Žižek che «se c’è un libro che può mobilitarci per affrontare l’emergenza ecologica, questo è Mal di Terra ». È a partire da questi presupposti che abbiamo intervistato Schultz, per capire con lui come sta cambiando il modo in cui descriviamo il cambiamento climatico. « Ho cercato – spiega l’autore – di trovare un modo più personale di scrivere di queste cose, e lo stile si colloca a metà tra il letterario e il teorico o accademico. Perché? Perché abbiamo bisogno di descrivere questi effetti così come si sentono, come si vivono, quando il mondo si sta semplicemente restringendo e la Terra trema sotto i piedi. Come direbbe Emanuele Coccia (che ha scritto la prefazione, ndr), viviamo in una crisi di sensibilità, e questo costringe gli scienziati sociali non solo a trovare nuove risorse analitiche, ma anche nuovi modi di scrivere e di raccontare, che possano aiutare a far emergere i registri emotivi necessari all’azione. Ursula Le Guin ha detto che abbiamo bisogno sia della curiosità della scienza che del rischio dell’estetica e credo che abbia ragione, da qui lo stile ibrido tra concettuale e affettivo». Il libro parte da una riflessione che spesso si tende a dare per scontata: un tempo le isole racchiudevano l’idea stessa di fuga, ora sono tra i primi luoghi a subire gli effetti del cambiamento climatico. « L’effetto che ha a livello esistenziale e psicologico – dice Schultz – è nauseante, ed è da qui che ho tratto il titolo: una metafora nautica».

Lei dice che l’esistenza è diventata molto più complicata, perché si svolge in una nuova geografia che rende indistinguibile locale e globale e che il compito esistenziale oggi è come ci si colloca in questi processi.

È difficile stare svegli di notte, cercare di dormire durante un’ondata di caldo di 43 gradi e leggere sul telefono che ci sono 50 gradi in Pakistan o che non c’è più acqua nei canali di Venezia. Ma è ancora più difficile rendersi conto che il ventilatore che permette di dormire in questa situazione fa salire alle stelle la propria traccia energetica, e quindi i problemi sono ancora peggiori. Per dirla in modo diverso, questi problemi ti seguono ovunque tu vada e qualunque cosa tu faccia. Qui si tratta di tremare per le tracce esterne che la libertà lascia dietro di sé. Tracce che colpiscono come un boomerang, minacciando la stessa abitabilità del pianeta. È difficile rispondere esattamente a come collocarsi in questi processi, perché dipende da chi sei, dove sei, quale è il tuo stile di vita, dove vivi e quali luoghi vivi, ma il primo compito è capire che la questione esistenziale oggi ha cambiato forma, e si esiste a partire da altri, il sostentamento è sostenuto dall’alimentazione delle terre e delle possibilità di vita di altri, alcuni vicini, altri lontani. In altre parole, essere consapevoli dell’estensione della propria esistenza.

Lei dice che la generazione di sua nonna viveva nel presente, ma a spese del futuro. Oggi le nuove generazioni hanno una visione più altruistica?

Sì, credo che le giovani generazioni pensino, sentano e approfondiscano questi temi più delle precedenti. Ha molto senso, a mio parere, che oggi i giovani attivisti inquadrino molte delle loro lotte politiche in termini di battaglie generazionali. I giovani sono coloro che hanno visto colonizzati i loro territori e il loro futuro. Considero i giovani una divisione chiave di quella che io e Bruno Latour abbiamo chiamato classe ecologica, intesa come classe che lotta contro la logica e per le condizioni di abitabilità del pianeta. I giovani di oggi sono quelli che hanno chiuso con le vuote promesse del “progresso infinito”.

Un tema centrale del suo libro è la politica che si applica ai territori.

Tutti i territori sono politici e tutte le politiche sono territoriali, anche se a volte tendiamo a dimenticarlo. Nel libro descrivo come nuove divisioni e conflitti socio-ecologici emergano sull’isola di Porquerolles, tra le rovine ecologiche di un’economia turistica che sta danneggiando l’aria, le acque e la terra. Questo porta a un nuovo tipo di divisione di classe, che io chiamo lotte di classe geo-sociali: da una parte c’è un gruppo di persone che vuole continuare a sviluppare l’attività turistica dell’isola, dall’altra un gruppo di persone che lotta per limitarla, a causa degli effetti dannosi che ha sulle condizioni di abitabilità. Questi conflitti vengono politicizzati e istituzionalizzati e creano gruppi di lavoro che cercano di definire le “capacità di carico” dell’isola. Sia a livello locale che a livello planetario abbiamo bisogno di una politica che cerchi di orientarsi nella questione di quando la produzione diventa controproducente.

Come si ricostruisce il proprio sé durante e dopo l’Antropocene?

Credo si riferisca all’ultima frase della postfazione di Dipesh Chakrabarty: il libro è un manuale per ricostruire il sé nell’Antropocene. Se il libro funziona solo in minima parte nel farlo, è probabilmente perché cerca esattamente di descrivere prima lo schianto esistenziale di un “sé” esaurito da un mondo naturale in disfacimento, e poi indica un suggerimento su come comprendere la figura dell’umano, in un tempo in cui l’umano sta tremando contemporaneamente alla Terra. Quindi si tratta di accettare che abbiamo perso i nostri punti di riferimento, i punti di ancoraggio, e poi cercare di riorientarci, e riconciliare. Nessuno può dare risposte universali a tutto questo, ma quello che si può fare è cercare di collocare l’umano nella situazione in cui ci troviamo. Il poeta Fernando Pessoa lo sapeva bene: « Se si vuole ricomporre il terreno della vita, bisogna prima descrivere le fratture del paesaggio emotivo » .