Agorà

Mostraci il tuo volto. «Quella nostra fragilità che è fame d'amore»

Roberto I. Zanini domenica 10 ottobre 2021

Don Alessandro Deho'

«Nascere e morire... questi sono gli ambiti che mi interessano di più». Incontri don Alessandro Deho’ nell’antico santuario ed ex eremo monastico della Madonna del Monte, quasi a mille metri, sopra Pontremoli, in Lunigiana (Massa Carrara), e ogni discorso, ogni parola perde di fronzoli e va al cuore del problema, entrando come una lama nella carne viva. «La morte di mio padre - prosegue don Alessandro - è stata l’esperienza più alta del volto di Dio. Un infarto. Si è ristabilito. Poi ha preso il Covid con la prima ondata a Bergamo. Per due volte mi hanno chiamato in reparto: un dono! La seconda fu, il 27 marzo, il giorno in cui il Papa fece quell’uscita col crocifisso sul sagrato di San Pietro davanti a una piazza deserta. Quel giorno lesse 'La tempesta sedata' e io, senza saperlo, avevo scelto lo stesso brano per mio padre, che era stato due anni in Marina. Davanti a quegli occhi che mi guardavano implorando libertà, piangevo ed era come sotto la croce. Lì sono crollate tutte le chiacchiere su Dio acqua e sapone. Lì c’era l’amore nella sua espressione più profonda e dolorosa. Mi sentivo nel cuore del nascere e del morire. Quegli occhi aperti sul mistero. Una benedizione paterna potentissima. Ho capito che la profondità della fede non è cercare Dio ma lasciarsi guardare da Dio. Un ribaltamento sull’orlo del precipizio perché in Gesù non c’è niente di edulcorato... Questo è il suo scandalo».

Don Deho’, 46 anni, viene dalla diocesi di Bergamo dove era parroco, attivo con i giovani e nel sociale. Ha scelto di vivere nella minuscola frazione di Crocetta (sette anime in tutto), in cima a un crinale impervio e boscoso posto fra lo spezzino e la provincia di Massa, dove scrive libri come La parola libera e, appena uscito, Dov’eri? Vivere non è solo un diritto (entrambi per Paoline) che verrà presentato il 17 ottobre al Salone del libro di Torino. La sua è la storia di chi si è incamminato verso l’essenziale nella piena fedeltà al suo essere umano ed essere prete. È stato obiettore di coscienza e ha fatto l’infermiere in un grande ospedale. Quando parli con lui, magari dopo aver visto la casa dove abita (comprata facendo un mutuo «come fa la gente comune »), con l’orto, aspramente conteso ai cinghiali, e la minima e disadorna cappella con un altare dove per celebrare non si può che stare in ginocchio, cogli quella stessa impellente ricerca della verità.

Ci sono state altre esperienze che l’hanno condotta su questa strada di svelamento dell’essenziale nell’estremo istante della morte?

In ospedale, da infermiere di ematologia. Una donna, doveva essere dimessa il giorno dopo, sta male nella notte. La trovo in bagno che vomita sangue. Nei suoi occhi una domanda che ti scava dentro: muoio? E tu non puoi fare altro che riportarla a letto dove muore di lì a poco. Avevo un amico, un giovane prete somasco che ho conosciuto da obiettore. Poi, da infermiere, gli raccontavo le mie esperienze. Qualche tempo dopo che ero entrato in seminario, mi chiama e mi dice che ha la leucemia. Il trapianto di midollo non riesce. Mi trovo con lui in ospedale il giorno prima della sua morte. Non dimentico i suoi occhi... Per me è lì il volto di Dio. In quel mistero che avvolge la morte. Quella è la povertà più radicale. Non c’è nulla di più povero di questo. E poi mio padre, che diventa padre davvero quando lo vedi che muore e ti chiedi se anche tu, quel giorno, saprai essere benedicente e consegnato come lui.

Un’ansia eccessiva per la morte?

Per me non è vivere con la paura della morte, ma è stata la consapevolezza della necessità di passare da una Chiesa che va a riempire i bisogni, a una Chiesa consapevole della sua stessa povertà, che si apre al bisogno dell’innamorato, che apre il cuore allo sposo del Cantico. Una Chiesa consapevole di essere bisognosa e nell’attesa dell’incontro: nella povertà di chi muore c’è un estremo bisogno d’amore, una zolla di terra in attesa di essere fecondata. Un san Francesco che avesse fatto la carità ai poveri non sarebbe stato un problema, lo diventa quando si fa povero. L’esperienza di Dio si fa mendicando amore, il suo amore. Lì si incontra il suo volto.

Questo non si poteva fare in parrocchia?

Certo ero più utile prima: oratorio, asilo parrocchiale, Caritas... Avevo idee pastorali bellissime, ma, e parlo per me, mi sono accorto che il progetto era più importante delle persone alle quali era rivolto. Qui, invece, incontro la gente su un terreno che non è fruizione di qualcosa, ma è accoglienza pura e semplice. Non ci sono categorie, ma una condivisione di storie e in ogni storia c’è un frammento del volto di Dio. Bisogna coglierlo senza chiudersi in schemi prefissati. Il volto di Dio è quell’amore che ti fa sentire accolto nonostante tutto. Di fronte alla morte non hai paura di mostrare la tua fragilità. Gesù sulla croce l’ha mostrata. È lo svelamento della fame d’amore che abbiamo. Questa è la preghiera: uno svelamento.

Una fame d’amore?

Gesù è entrato nel mondo riempiendo una culla e ne è uscito svuotando un sepolcro. Siamo la fame, siamo il bisogno, siamo il vuoto, siamo apertura a un incontro che solo può dare senso alla vita.

Come l’amante del Cantico che desidera inebriarsi dell’altro?

Esattamente. Due amanti nella pienezza del loro amore mettono l’uno nelle mani dell’altra la loro nudità: si concedono totalmente. Se io smetto di far vedere che sono un prete bravo e mi mostro per quello che sono: un povero cristo che ha un’infinita fame d’amore, allora chi mi avvicina si sente compreso, accompagnato e possiamo metterci l’uno nelle mani dell’altro.

Vengono in mente tutti gli smarriti, gli anziani...

Quanti sono i sofferenti, gli svuotati da questa società? Invecchiare è traumatico. È svuotamento. L’anziano è evangelico: si consegna. Gesù si mette nelle mani di Maria e Giuseppe. Si consegna ai discepoli nell’Eucaristia. Si consegna ai carnefici. Si consegna nella deposizione dalla croce. Il Vangelo è una deposizione continua, fino al deporsi nelle mani del Padre. Gesù ci mostra la verità profonda che è nell’essere bisognoso.

E il suo essere prete?

Credo che la fedeltà non sia al ruolo, ma al mandato. Gesù ci manda ad annunciare le cose del Regno di Dio. A volte il rispetto del ruolo rischia di condurre a un cristianesimo vuoto. Ho capito che è necessario essere fedeli al mandato e che su questa strada si giunge non solo all’essenzialità del ruolo, ma lo si oltrepassa. Ho scelto di mettermi in cammino su questo strada e ringrazio il mio vescovo che ha condiviso lo spirito della mia ricerca e il vescovo di Massa che mi ha accolto. Celebro e confesso al santuario e in alcune frazioni qui intorno. Vivo la straordinaria amicizia che i pochi abitanti di Crocetta mi regalano e in due anni ho imparato tanto. La loro saggezza ha sgretolato tante mie convinzioni e luoghi comuni di cittadino. Un cammino che non so dove mi condurrà. Per la gente che mi cerca sono un fratello che accoglie e ascolta, che fa un pezzo di strada insieme, che condivide nel Vangelo, anzi, il desiderio del Vangelo, dell’innamoramento di Gesù, perché è Lui che ci ama. C’è chi mi dice: «Non posso essere nella Chiesa perché non sono in regola». Ma Lui ci ama comunque, a ogni costo e ha fiducia in noi. Questa è la cosa pazzesca: il protagonista è Lui, non noi. E così ci si incammina verso la percezione del volto di Dio.