Agorà

Teologia. Quei presagi d'aldilà, sereni ma tanto confusi

Roberto Righetto venerdì 26 giugno 2020

Matt Damon in “Hereafter”, il film del 2010 dove Clint Eastwood si interroga sull’aldilà

A cavallo tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso fece scalpore in tutto il mondo la Storia del paradiso, un’articolata indagine condotta da Bernhard Lang e Colleen McDannell sulla credenza nell’aldilà in America ed Europa. Dal volume, uscito negli States nel 1988 e in Italia tradotto da Garzanti nel ‘91, risaltava una concezione del paradiso come un prolungamento degli affetti più cari della nostra esistenza terrena. «Un cielo basato sull’amore domestico », così commentavano i due storici della religione. Scrivendo più volte di questi temi su “Avvenire”, è capitato di ricordare come in un sondaggio realizzato dalla redazione di Agorà nel 1996 presso i lettori, dal titolo “Credi nell’aldilà?”, la risposta prevalente sia stata il desiderio di ricomposizione degli affetti nella speranza che nulla di ciò che abbiamo vissuto di bello e autentico vada smarrito. Un fenomeno che nella Storia del paradiso emerge a partire dall’età vittoriana, quando si manifesta un cambiamento di mentalità che porta a vedere il paradiso come la continuazione della vita borghese. Il tutto esemplificato nei romanzi d’evasione, o “romanzi celesti”, che ebbero straordinaria diffusione nei Paesi di lingua inglese nel XIX secolo. Anche il teologo tedesco Gerhard Lohfink, autore del corposo volume Alla fine il nulla? Sulla risurrezione e sulla vita eterna (Queriniana, pagine 284, euro 34,00), si richiama agli studi storici e antropologici ma soprattutto teologici, come quelli di Rahner e von Balthasar, nel tentativo di compiere un’opera di chiarificazione indispensabile oggi, data la confusione che regna nella mentalità comune, ma anche in quella dei credenti. Basti pensare che in una recente inchiesta demoscopica tra i fedeli in Germania, Austria e Svizzera, oltre il 30 per cento degli intervistati ha dichiarato di credere nella propria reincarnazione.

Per Lohfink all’uomo del XXI secolo, rispetto alla vita nell’aldilà, si presentano due prospettive, il nulla o la risurrezione. Ove nella categoria del nulla sono ricomprese quelle soluzioni intermedie assai diffuse perché tranquillizzanti, come “lo scomparire nella natura” o il “sopravvivere nei discendenti” o ancora appunto “l’avere continue reincarnazioni”. Il libro comincia col sottolineare che è sufficiente leggere gli annunci funebri per testimoniare come la domanda sul senso della morte sia insopprimibile anche nelle società secolarizzate: «È un pullulare di riconoscimenti cristiani e non cristiani, filosofici o raffinatamente letterari». Poi ci sono massime molto amate: «Chi vive nel ricordo dei suoi cari non è morto, è solo lontano; muore solo chi è dimenticato», una sentenza attribuita ora a Seneca ora a Kant o Hemingway. Oltre al ricordo dei propri cari trapela il desiderio di non estinguersi grazie alla propria fama, ma, commenta Lohfink, «che forma misera d’immortalità è quella di sopravvivere in un’enciclopedia!». Anche rispetto alla credenza nella reincarnazione, fatta propria da molti esoterici occidentali come Rudolf Steiner, che cercò di combinare la trasmigrazione delle anime con la teoria dell’evoluzione, il teologo elabora una critica serrata: «Ogni vita umana è qualcosa di unico, irripetibile, prezioso. Niente può essere rimandato, niente può essere delegato a incarnazioni future. L’essere umano non può consolarsi con un “forse nella prossima vita”. No, egli deve decidersi ora». La reincarnazione può poi portare al fatalismo sociale, all’indifferenza rispetto alla disuguaglianza e, come nel caso dell’induismo, a un sistema di caste che innalza barriere insuperabili. Ma certamente l’opinione più condivisa in ambito non cristiano è l’idea di dissolversi nell’universo, di entrare a far parte della natura, anzi di Madre Natura.

La morte in questo caso rappresenta il ritorno nel grembo del creato, con Dio paradossalmente assente. È Schopenhauer il riferimento filosofico principale di questa concezione di cui è segno la volontà di essere sepolti ai piedi di un albero o di far disperdere le proprie ceneri nel mare. E’ una mistica del dissolvimento che ha un significato panteistico e che trova sostegno anche in alcune odierne conoscenze di carattere biologico o fisico. Ma alfine, anche nei sostenitori di queste teorie o tendenze, la domanda sul nostro destino dopo la morte resta inalterata: che ne è della nostra vita, del cumulo di gioie e sofferenze? E che ne è della storia del mondo, del numero impressionante di persone che hanno subito violenze d’ogni tipo? Quale riparazione potranno avere in una vita futura? A queste domande solo il cristianesimo, anche se vilipeso e frainteso in età moderna e postmoderna, è in grado di dare una risposta efficace. Tutta l’escatologia cristiana non può che fare riferimento all’insegnamento di Gesù, al racconto evangelico della sua risurrezione e alle apparizioni pasquali in cui egli si presenta niente affatto privo della sua corporeità, ma come totalità. Per Lohfink la morte allora non è altro che l’incontro con Dio, «il mistero insondabile della nostra vita». I Vangeli sono piuttosto sobri nel presentare il senso di questo incontro. «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio», dice Gesù nel Discorso della montagna. E al buon ladrone promette: «Oggi sarai con me in paradiso». Ma cos’è questo incontro con Dio? È il momento del giudizio, tema inevitabile per un’escatologia “onesta”. Dinanzi al male che abbiamo commesso solo Dio può fare giustizia altrimenti la storia sarebbe «un mondo in cui gli assassini trionfano, i potenti della storia e gli spregiatori della dignità umana hanno ragione per sempre e gli ingannati restano tali in eterno». Il giudizio dopo la morte è in primo luogo un palesamento: nulla resta nascosto e tutto viene manifestato.

Non solo le colpe, ma anche l’innocenza e il bene compiuto, «la gioia piena di stupore per il bene che c’è stato nella propria vita e nella vita degli altri», un aspetto spesso trascurato nella predicazione della Chiesa, sia ieri che oggi. Lo si è visto anche nell’emergenza coronavirus, in cui alcuni preti hanno preferito parlare di “covid manager” per la celebrazione delle Messe piuttosto che cimentarsi in discorsi più profondi. Conclude Lohfink: «Quando incontreremo Dio nella morte riconosceremo chi siamo veramente. Dio non ha bisogno di ergersi giudice. Noi stessi giudicheremo e condanneremo il male in noi. L’incontro con Dio sarà per noi un autogiudizio». Che formuleremo davanti a Dio e alle vittime che abbiamo creato, a coloro che non abbiamo consolato, che abbiamo ignorato, offeso o disprezzato. Il tutto sapendo che sarà la misericordia a prevalere, la salvezza sovrabbondante annunciata nel Vangeli. Misericordia nella verità: ecco la sostanza dei Novissimi. Con la purificazione che ci sarà richiesta, che non è tanto da vedere come espiazione o punizione e per cui è errato pensare in termini temporali: «Sono solo la misericordia e l’amore di Dio a permettere all’uomo di divenire santo fin nel profondo della propria persona ». L’inferno in questo quadro rimane un’opzione fondamentale, una possibilità terribile che non può essere abbandonata: «Si può solo sperare che l’inferno sia vuoto, o meglio che nessuno diventi inferno di se stesso». Lohfink non si esime dall’affrontare tutti i temi dell’escatologia cristiana sino al destino dell’universo, degli animali e delle cose. E ricorda una frase rilevante di C.S. Lewis: «Se già qui possiamo gioire con chi gioisce, tanto di più sarà nella comunione dei santi in cielo».