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Mostra del Cinema. Quant'è vero il prete finto di Jan Komasa

Angela Calvini martedì 3 settembre 2019

Bartosz Bielenia nei panni di Daniel nel film “Corpus Christi” di Jan Komasa

Mentre al Lido di Venezia sfilano i due Papi di Paolo Sorrentino, alla 76ª mostra del cinema passano film meno sfarzosi, ma che della Chiesa si occupano in modo più approfondito e consapevole, come il polacco Corpus Christi di Jan Komasa o Vojtaššák: i giorni dei barbari di Alberto Di Giglio. Proprio dai Paesi dell’ex Cortina di ferro arrivano le testimonianze più interessanti e dolorose sulla Chiesa. Corpus Christi, passato alle Giornate degli Autori, è un film spiazzante, durissimo e tenero al tempo stesso, tratto da una storia vera. Il ventenne Daniel subisce una trasformazione spirituale mentre sconta la sua pena per omicidio in riformatorio. Un luogo carico di violenza, come mostrato in alcune scene (di qui il divieto ai minori di 14 anni) in cui Daniel trova conforto in una fede sincera e nell’ispirazione datagli da padre Thomas, il volitivo cappellano del carcere. La frase dell’omelia «ognuno di voi può essere sacerdote» lo illumina. Vorrebbe farsi sacerdote ma è impossibile a causa dei suoi precedenti penali. Quindi, quando viene inviato a lavorare nella falegnameria di uno sperduto paesino polacco, si veste da prete e, per un caso, viene a sostituire il parroco che sta male.

L’arrivo del giovane, con le sue sincere e appassionate omelie che nascono dalla vita reale e il suo impegno umano, riesce a curare il dolore di una comunità ferita da una tragedia in cui hanno perso la vita diversi ragazzi del paese. Ma l’inganno non può durare e le conseguenze saranno drammatiche per il giovane Daniel, confuso sul suo destino. «Ho fatto un film così perché la Chiesa nei film viene dipinta sempre in modo stereotipato, non volevo fare commedie alla Sister Act », racconta il giovane e talentuoso regista al suo secondo lungometraggio dopo il successo di Warsaw ’44. Possibile che si tratti di una storia vera? «Certo, il film è stato sceneggiato da Mateusz Pacewicz, il giornalista che trovò la storia per primo e ne fece un reportage», aggiunge il regista. Un caso che fece discutere la Polonia qualche anno fa quello di Patrick, un diciannovenne che per tre mesi si travestì da prete, attirando molti fedeli, battezzando e sposando persone, sino ad essere scoperto.

«La faccenda arrivò anche in Vaticano sulla questione della validità dei sacramenti impartiti – aggiunge –. Ma questo ragazzo lo faceva veramente per fede, al contrario di altri casi in cui si trattava di delinquenti, e lui non lo era, che cercavano solo di sfuggire alla legge». Nel film Daniel cerca invece la sua strada nel Signore, dopo una vita fatta di droga, sballo, errori. Le prime rapidissime immagini del film sono come uno schiaffo che vuole introdurre lo spettatore nel feroce mondo del carcere, dove la violenza è il pane quotidiano: il regista, impegnato da anni nel sociale, ha fatto recitare trenta ragazzi di vari riformatori polacchi per enfatizzare il contrasto fra una realtà brutale con la spiritualità e il bisogno di Dio di un ragazzo allo sbando, che quando canta con voce angelica durante la Messa in carcere si illumina. Daniel (Bartosz Bielenia) studierà come dire Messa, si impegnerà non senza timori. Al momento giusto, ma come illuminato dall’alto (spesso il suo sguardo va al Crocefisso) esprime parole che arrivano dritte al cuore di una comunità chiusa nel proprio dolore e nella propria rabbia.

Anche se quando toglie la tonaca il ragazzo non manca di ricascare in eccessi, grazie all’esperienza umana e spirituale nel paesino crescerà. Purtroppo le verità vengono a galla, e Daniel nella sua rinuncia affronterà un sacrificio durissimo, scopriremo però non invano. «In questo film affronto anche il bisogno di trovare guide spirituali nuove per i giovani polacchi, dove dopo la caduta del comunismo e la globalizzazione la società diviene sempre più secolarizzata – spiega il regista –. Ma al tempo stesso dipingo, attraverso la figura del prete anziano, anche la crisi della nostra Chiesa in un Paese tentato dal nazionalismo». Komasa è ferrato sull’argomento anche perché proviene da una famiglia di artisti che facevano parte dell’intellighenzia cattolica che opponeva resistenza al comunismo. «Per il film ho avuto la consulenza di due sacerdoti amici di famiglia – aggiunge sorridendo –. Giovanni Paolo II era amatissimo e quando venne in visita in Polonia grazie a mia mamma che lavorava in tv fui tra i bambini che lo accolsero. Io lo presi per mano istintivamente e poi mi ritrovai la mia foto sui calendari dei baracchini vicini a Piazza san Pietro».

A Venezia colpisce anche l’esperienza drammatica e straordinaria che gli autori del film documentario Vojtaššák: i giorni dei barbari, Alberto Di Giglio e Luigi Boneschi, hanno voluto riportare alla luce. Il bel lavoro ricco di documenti e testimonianze, racconta del servo di Dio Ján Vojtaššak, nato nel 1877 da una famiglia contadina slovacca, personaggio ammirato da Giovanni Paolo II. Il documentario è stato presentato al Lido presso lo spazio della Fondazione Ente dello Spettacolo, presente il postulatore della causa di beatificazione Peter Jurcaga da cui è nata l’idea del docufilm interpretato da Milan Kasan, e il regista Alberto di Giglio a cui, insieme a Luigi Boneschi, si debbono molti lavori biografici storici e religiosi. «Questo lavoro è tre cose – spiega Di Giglio –: una pellicola di fiction, realizzata grazie alla straordinaria collaborazione della gente slovacca; un documentario storico che grazie a immagini inedite degli archivi della ex Cecoslovacchia, la presenza eccezionale del cardinale Tomko e di altri importanti testimoni, ci spiega una pagina appassionante e sconvolgente del ’900. Infine è un reportage in alcuni dei luoghi più significativi di un paese bellissimo, la Slovacchia del paese natale di Zakammené, della suggestiva sede episcopale di Spišská Kapitula, del tenebroso carcere di Leopoldov». Un lavoro che presto uscirà in dvd per far conoscere un esempio di fede rocciosa portatrice di libertà e non piegata dai totalitarismi. Con l’instaurazione del regime comunista, Vojtaššak venne perseguitato attraverso privazioni e torture, arresti e processi illegali: fino a ricevere una condanna a 24 anni di carcere per presunte attività politiche e di spionaggio a favore del Vaticano.. Morì infine nel 1965 esiliato e rimosso da qualsiasi contatto con la sua diocesi e la nazione slovacca. Un modello di coraggio di quella “Chiesa del silenzio” che contribuì al crollo del regime cecoslovacco nel 1989, oggi ancora più attuale.