Agorà

Riscoperte. Quando gli scrittori si ispirano alla Bibbia

Riccardo De Benedetti venerdì 18 gennaio 2019

Il “Codex Argenteus”, manoscritto del Nuovo Testamento in lingua gotica realizzato su pergamena color porpora e scritto con caratteri in argento e oro

Con la preziosa presentazione di Piero Boitani “Vita e Pensiero” riedita un capolavoro della critica letteraria, Il grande codice. Bibbia e letteratura, del critico canadese Northorp Frye. Il felice dubbio che sorge spontaneo dopo la “rilettura” di questo importante testo del 1981 è che non si tratti di semplice “critica letteraria”. La critica moderna della Bibbia, iniziata da Spinoza, con la sua “riduzione” a mera testualità, nella quale solo il gioco interpretativo dei significati giustifica la persistenza di quella che un altro grande critico letterario, Harold Bloom, non da solo, chiamava l’influenza e il conseguente obbligo da parte dello scrittore a disinterpretare il testo di riferimento del suo lavoro, ci ha disabituati a qualsiasi altra forma di sintesi. In altri termini: i fedeli credono a ciò che scrive la Bibbia; gli altri la interpretano; gli scrittori la usano come riserva infinita di metafore, narrazioni, linguaggi, figure, forme retoriche ecc. Unisce queste diverse categorie di “utenti biblici” il collante, dicono in via di estinzione, di una cultura sempre meno condivisa, destinata ad esplodere e disarticolare il corpus tradizionale della trasmissione testuale, sciogliendo il testo originario dai suoi vincoli con la tradizione e, soprattutto, relegando a insignificanza il contenuto “rivelativo” della Bibbia. È ciò che ha fatto la decostruzione di Jacques Derrida. È ciò che fanno coloro che dell’immenso edificio biblico estrapolano la dimensione letterale allontanandola da quella letteraria. Sembra una variante sul filo del gioco, ma non è così. In fondo, l’esasperato letteralismo di cui si nutre certa discussione teologica (un esempio per tutti è l’antigiudaismo nei testi della Bibbia cristiana) potrebbe essere ampiamente corretto ed evitato se si tenessero presenti le indicazioni di Frye sulla tipologia, vale a dire sul riconoscimento incessante nel Nuovo Testamento della relazione che la vita, la predicazione e la morte di Gesù hanno con la Bibbia ebraica. Non dice nulla a costoro il versetto «affinché si compisse la Scrittura »? Esasperato letteralismo, perché sia che lo si accolga sia che lo si respinga, entrambi i gesti presuppongono che la Bibbia parli un linguaggio che non chiede spiegazioni e interpretazioni. Di qui gli studi sul linguaggio sessista della Bibbia; o quelli sull’origine dello sfruttamento della natura e il conseguente incentivo all’inquinamento ecc. Non c’è praticamente aspetto della discussione culturale odierna che non abbia di mira il riverbero che la Bibbia getta sulla realtà che si deve valutare e discutere. Se questa è la situazione, la riedizione del Grande codice fornisce, nuovamente e opportunamente, dopo l’edizione einaudiana del 1986, motivi di grande riflessione. Esponente della Chiesa Unita canadese, morto nel 1991, Frye ha con- dotto in tutta la sua vita di studioso una ricerca indirizzata a fornire alla critica non solo gli strumenti tecnici per il suo corretto esercizio, ma, soprattutto, le sue motivazioni profonde che risiedono nello sforzo di indicare nell’espressione letteraria uno degli strumenti utilizzati dall’uomo per fronteggiare la dimensione enigmatica e, per certi versi, terribile di ciò che lo circonda. Per l’autore di Anatomia della critica e, tra altri importanti interventi, di quel controcanto discreto ma non meno efficace ai Miti d’oggi (1957) di Roland Barthes, che è Cultura e miti del nostro tempo (1967), vale forse la correzione che si potrebbe fare al titolo di un volume della rivista “In forma di parole” del compianto Gianni Scalia, dedicato alla critica testuale americana nel lontano 1985: «per una critica antagonistica ». Che non è quella, per altro inesistente e futile, dei centri sociali, bensì quella “agonistica” della lotta che l’uomo conduce ogni giorno con l’Angelo per l’affermarsi del senso e del significato della sua vita. Ma anche questa, e basterebbe l’amato William Blake che dice «l’Antico e il Nuovo Testamento sono il Grande Codice dell’arte» a ricordarcelo, trova radice nella Bibbia. Le tragedie della Storia, i conflitti, l’inaccettabile erompere della violenza tra le fedi monoteiste, traggono alimento non dalla vicinanza al testo biblico ma, al contrario, dall’allontanarsi dell’uomo dalla sua ricchissima e infinita tessitura letteraria.