Agorà

Riletture. Così Dino Buzzati immaginò il mondo della pandemia

Lucia Bellaspiga mercoledì 16 marzo 2022

"Il visitatore del pomeriggio", disegno tratto dal "Poema a fumetti" di Dino Buzzati

Anticipiamo una sintesi dell'intervento che la giornalista di "Avvenire" terrà ai Colloqui Fiorentini che si svolgeranno da domani, giovedì 17, a sabato 19 marzo a Firenze e sono quest'anno dedicati a Dino Buzzati.

“Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue...”. E’ uno degli incipit più noti delle cronache di Dino Buzzati, lo scrittore-giornalista-pittore scomparso 50 anni fa. Con queste parole, più adatte a un racconto gotico noir che alla cronaca, Buzzati in realtà raccontava sul Corriere della Sera un fatto di sangue tanto efferato da essere diventato un classico della criminologia, ovvero la strage compiuta in via San Gregorio a Milano da Rina Fort (respinta dall’amante, ne uccise a sprangate la moglie e i tre figlioletti, l’ultimo nato ancora seduto sul seggiolone). Non un assassino in carne ed ossa, dunque, ma un demonio invisibile che colpirà ancora, forse proprio noi… Quanti articoli, racconti e quadri di Buzzati ci sono balzati alla mente in questi due anni di pandemia, specialmente all’esordio del misterioso virus piombato fin dentro le nostre case, di fronte al quale l’intera umanità si è trovata impotente e unita nell’identica paura del nemico senza volto? Le atmosfere del Covid-19 sembravano ricalcare perfettamente tante sue pagine scritte o disegnate, al punto che era lecito chiedersi “come descriverebbe la pandemia nei suoi articoli Dino Buzzati, se fosse qui?”. La risposta non è impossibile, anzi. E non solo perché per tutta la vita l’autore descrisse l’incombere pauroso di un destino sottile, addirittura “interstiziale” (come le famigerate polmoniti che hanno soffocato migliaia di vittime nei caschi delle terapie intensive), capace di mettere in ginocchio la tracotante umanità; ma anche perché il tempo e lo spazio in Buzzati sono categorie relative, e in fondo il fatto che sia morto da mezzo secolo non gli impedisce di aver in qualche modo “scritto” la cronaca precisa del Covid (d’altronde nel 1966 si era profeticamente immaginato una Milano del 2000 dove la gente dialogava attraverso “certi telefoni-televisori tascabili con i quali è possibile parlarsi e vedersi”, “un malcostume diffuso” cui dava il nome di “teletini”, i nostri telefonini).

Facile, dunque, “rileggere” cinquant’anni dopo le sue pagine mai scritte sulla pandemia e indovinarne lo stile. C’è persino il lockdown: “Noi siamo ben chiusi in casa con le porte sprangate, eppure lo sentiamo vagare intorno e strisciare lungo le trombe delle scale” (dice dell’assassina di via San Gregorio), “bisogna scovarlo, occorre togliergli l’aria”, come il virus la toglieva a noi nelle case, nelle ambulanze, nei corridoi degli ospedali saturi. Bisogna “respingerlo fino alle lontane foreste del buio da dove è riuscito a fuggire”, che siano i mercati di Wuhan o prima ancora le foreste cinesi abitate dai pipistrelli.

Ricordiamo tutti la follia dei negazionisti (negare la pestilenza aiuta a illudersi che non esista), ciechi di fronte a decine di migliaia di morti. Un vizio umano ben noto a Buzzati, che lo stigmatizza nelle numerose “apocalissi” da lui narrate o dipinte con sferzante sarcasmo: “Tutti sanno cos’è; ma non se ne parla mai” (dal racconto Le reticenze). Non nominare la “cosa” aiuta a non farla esistere. Ma così lei agisce indisturbata: “Nottetempo crolla addirittura un pezzo del ricovero dei vecchi”, i primi a morire nelle Rsa, “sprofondati come se si fosse aperta una voragine”. Per il momento tocca agli anziani, dunque, mentre contro i giovani le piccole creaturine “si accontentano di modici colpetti: ammazzare un viaggiatore solitario, rapire una ragazza appetitosa. Per ora”, ironizza Buzzati. Perché “poi verrà il giorno che all’improvviso piomberanno sul paese in massa”. Come ben sappiamo.

“E il giorno dopo”, disegno tratto dal "Poema a fumetti" di Dino Buzzati - .

La minaccia in Buzzati ha tanti volti, tutti perfetti per farci immaginare quali elzeviri si sarebbe inventato nel marzo 2020. “Una goccia d’acqua sale i gradini della scala. La senti? Disteso in letto nel buio, ascolto il suo arcano cammino...” (dal racconto Una goccia) Nessuno ne è esente, “piano piano si innalza lungo la tromba delle scale lettera E dello sterminato casamento”. Oppure è una immane Luna che si avvicina alla Terra mentre l’umanità impazzita cerca salvezza e si pente in fretta dei propri peccati: “Tra qualche ora il globo butterato si allargherà a riempire interamente il cielo” (Una fine del mondo, quadro dipinto nel 1957). All’inizio, di fronte alla notizia della imminente apocalisse, l’umanità serra le fila nel far fronte unita al disdicevole incidente (qualcosa di simile ai nostri canti sui balconi, durati qualche giorno, e all’auspicio “ne usciremo migliori”…): “Un boato che sembra uscire dalle viscere del mondo – sono gli uomini, milioni di gridi e di lamenti in coro – si alza dalla città atterrita” (L’incantesimo della natura). Ma più spesso, proprio come noi abbiamo visto accadere, all’arrivo del finimondo si creano fazioni, si cercano colpevoli, gli odiatori (oggi hater da tastiera) danno il peggio di sé. Divertente è in particolare la bagarre che scoppia nel racconto La fine del mondo, dove “Un mattino verso le dieci un pugno immenso comparve nel cielo sopra la città: si aprì poi lentamente ad artiglio e così rimase, immobile”. Nonostante il destino sia lo stesso per tutti, ognuno pensa solo a sé in una poco edificante gara di ipocrisie, prova ad accaparrarsi la salvezza a spese degli altri, si batte il petto per i propri peccati (anche quelli non fatti: non c’è tempo per troppi distinguo), mentre le maggiori autorità e gli industriali pagano per avere l’esclusiva dei migliori confessori. “Stranissimo, ma i quattrini conservavano ancora un certo loro prestigio, benché si fosse alla fine del mondo”, annota Buzzati, che oggi con quelle parole avrebbe potuto denunciare le ragioni dell’economia anteposte alle ragioni della salute tra gli industriali che si opposero alla zona rossa di Bergamo e dintorni (salvo poi scusarsi) o i traffici di mascherine fasulle…

C’è proprio tutto, persino l’illusione che la microscopica sfera con le sue punte uncinate potesse riguardare solo “gli altri”, come se i virus si fermassero al confine. L’Italia, colpita per prima dal contagio, era guardata con pena e sgomento dal resto d’Europa, che però non si attivava per prevenire lo stesso destino, come se la faccenda non li riguardasse. S’intitola Toc toc l’inquietante quadro in cui un lupo nero batte alla porta di un condominio, mentre dal casamento accanto chi guarda dal balcone esclama “Uh! Povera gente!” (credendosi al sicuro).

In numerosi altri quadri, come Il visitatore del mattino, impressiona la forma della “cosa” praticamente identica al virus del Covid, che con le sue punte – le proteine Spike – invade i polmoni e si impossessa dei corpi (“La ghermì, le usò violenza, entrò letteralmente in lei, al punto da deformarla”, è la didascalia). Persino le città deserte dei lockdown o le code di camion che trasportavano le bare sono già dipinte ad esempio in Poema a fumetti, con la sua Milano allucinata percorsa da carri funebri in fila…

Per non parlare de I miracoli di Val Morel, dipinti da Buzzati nello stile degli ex voto popolari, dove Santa Rita interviene per sanare nefandezze umane o fantastiche calamità: solo la Santa può fermare La nube di bisce, esserini aerei capaci di soffocare buoi, capre e pecore, “né valevano le precauzioni dei contadini, i rettili penetrando nelle stalle dai minimi interstizi” (letali e interstiziali, appunto).

Un collage di parole e immagini ci svela, insomma, gli articoli “scritti” da Buzzati nell’anno Domini 2020, cinquant’anni dopo la sua morte. Possibile: perché per dirla con Montanelli “se n’è andato così alla Buzzati, che alla Buzzati potrebbe anche tornare. E pure questo troveremmo del tutto naturale, come una delle sue tante magie”.