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Un dialogo Dirac-Lemaître . Quale psicologia per la religione

Andrea Lavazza giovedì 11 maggio 2017

Paul Dirac

Quello tra fede (o religione) e scienza è un rapporto annoso e complesso, talvolta semplificato sui due versanti estremi: opposizione inconciliabile o sintonia nella diversità degli ambiti. Ogni contributo che vada oltre la superficie è allora benvenuto. Un’occasione viene in questi giorni da una conferenza presso la Specola Vaticana dedicata al sacerdote e illustre fisico Georges Lemaître (1894-1966), padre della teoria del Big Bang, cui l’autorevole collega Carlo Rovelli, martedì, ha dedicato un lungo articolo sul Corriere della Sera.

Rovelli, noto anche al grande pubblico per le sue brillanti opere divulgative, ha rievocato un articolo minore di Paul Dirac, in cui il gigante della fisica del Novecento insieme a Einstein narra di un lapidario dialogo con Lemaître. Dirac afferma che la cosmologia è «il ramo della scienza più vicino alla religione». Lemaître dissente e replica che si tratta invece della psicologia. Rovelli chiosa poi che l’idea è «sorprendente» e «illuminante». Come sempre, bisogna intendersi su ciò di cui si sta parlando.

La psicologia cui accenna lo studioso italiano è qualcosa di più simile al filone specifico della psicologia positiva in chiave spiritualista o forse alla filosofia morale oppure all’antropologia filosofica. La psicologia scientifica, oggi, è essenzialmente la psicologia cognitiva, che studia il funzionamento della mente come processo e computazione e lavora con gli esperimenti di laboratorio. E nella sua confluenza con l’evoluzionismo darwiniano sta portando negli ultimi decenni, certo dopo la morte di Lemaître, una delle sfide più radicali al fenomeno religioso.

Come nasce la religione

A partire dal riconoscimento che quella che chiamiamo religione si è manifestata universalmente, con alcune caratteristiche che si ripetono in molte delle sue versioni lontane sia nello spazio sia nel tempo, molti ricercatori hanno ipotizzato che le idee religiose siano il frutto di predisposizioni innate, sorte nel corso dell’evoluzione. Si tratterebbe di tendenze a vedere agenti e intenzioni anche nel mondo inanimato e a leggere di conseguenza la realtà come abitata di entità che volontariamente producono specifici effetti. Si è notato, per esempio, che i bambini tendono ad attribuire finalità agli oggetti (“il martello serve a piantare chiodi”), alle parti degli esseri viventi (“le gambe servono a camminare”) e a elementi naturali (“gli alberi servono a fare ombra”).


Da questi meccanismi psicologici di base, utili per sopravvivere nell’ambiente in cui si trovavano i nostri progenitori (meglio temere un’ombra che finire mangiati), insieme alle idee parimenti innate di anime immateriali e immortali,

sarebbero sorti i concetti di divinità che sostanziano molte religioni.

In ambito evoluzionistico, è aperto il dibattito sul carattere adattativo della religione, se sia cioè un adattamento diretto o un cosiddetto sottoprodotto di altri adattamenti, e se sia complessivamente utile o dannoso per gli individui e la società. I processi culturali avrebbero poi cooptato queste idee all’interno di sistemi più complessi.


L'ipotesi Grandi dei

Ara Norenzayan, nel suo recente Grandi dei (Cortina), sostiene, per esempio, che vi sia stata una coevoluzione tra le religioni che promuovono la socialità attraverso la devozione a divinità onniscienti e la cooperazione all’interno di vasti gruppi di estranei. La credenza in grandi dei, che sorvegliano, promettono premi e punizioni e favoriscono così il rispetto delle norme, permette alle persone di fidarsi a vicenda. Tutta la ricerca si svolge in una cornice naturalistica, che dà in genere per scontato che i contenuti delle credenze religiose siano mitici (leggi: falsi). Le evidenze prodotte sembrano però tutt’altro che conclusive. I problemi di questo approccio sono legati essenzialmente alla difficoltà di circoscrivere l’oggetto d’indagine – che cos’è la religione – e a spiegare molti (se non tutti) gli aspetti chiave del fenomeno religioso.

Si tratta tuttavia di un filone di studio che non può ormai essere ignorato nel tentativo di una comprensione generale del fenomeno religioso. Forse Lemaître non sarebbe più un sostenitore della vicinanza a una psicologia di questo tipo. A meno che vicinanza significhi che sia psicologia sia religione (nel rapporto con Dio) insistono sull’essere umano. Ma questo è probabilmente troppo poco per grandi menti come quelle dei fisici coinvolti nel dialogo (e nel suo commento).