Agorà

ANNIVERSARI. Proust alla ricerca della Bibbia perduta

Alessandro Zaccuri martedì 12 novembre 2013
​Basta dire «14 novembre» e i proustiani capiscono di che cosa stiamo parlando. Cent’anni fa esatti, in questa data, l’editore parigino Grasset pubblica Du côté de chez Swann, primo volume del ciclo romanzesco che farà di Marcel Proust l’autore inarrivabile, ammirato e temuto da generazioni di scrittori. Inizia così l’avventura della Ricerca del tempo perduto, destinata a trasformarsi presto in duello editoriale fra la stessa Grasset e Gallimard, che in un primo tempo aveva rifiutato di pubblicare il libro. Data significativa sotto molti aspetti, dunque, quella di dopodomani. Lo sanno anche all’Istituto italiano di cultura di Parigi, che nel pomeriggio del fatidico 14 novembre ospita un prestigioso incontro su «Proust et l’Italie». Il relatore principale è Alberto Beretta Anguissola, molto conosciuto anche dal pubblico non specialista per il fitto lavoro di annotazione compiuto sulla Recherche tradotta da Giovanni Raboni per i “Meridiani” Mondadori. Autore del recentissimo Les senses cachés de la «Recherche» (Garnier), Beretta Anguissola si è soffermato spesso sulla presenza di elementi religiosi nel capolavoro proustiano, guardandosi bene però dal proporne un’interpretazione esclusivamente cristiana. «Per almeno due motivi – spiega –. Il primo è che la Recherche è un’opera di tale ricchezza da scoraggiare qualsiasi tentativo di lettura univoca. Il secondo, non meno importante, è che in più di un’occasione Proust si è definito ateo. Chi sperasse di trovare nelle sue pagine l’immagine del Dio personale resterebbe irrimediabilmente deluso. Non per questo, però, si può dire che manchino gli indizi di tipo biblico o addirittura sacramentale».A che cosa si riferisce?«L’intero ciclo della Recherche, si basa, com’è noto, sul rapporto con la memoria, che rende possibile la riconquista del passato. Un processo all’interno del quale rivestono un ruolo decisivo le cosiddette “memorie involontarie”, ricordi che affiorano spontaneamente nella mente del narratore e che finiscono per fare da fondamento al grandioso edificio del libro. Bene, se osserviamo le tre “memorie” principali ci accorgiamo che sono accomunate dalla duplice caratteristica biblica e sacramentale».Quali sono?«Procedendo a ritroso nel racconto della Recherche, il primo episodio riguarda i pensieri suscitati da alcune pietre difettose, identificate con la “pietra scartata dai costruttori” del Salmo. Ma Proust va più in là, evocando il ricordo del Battistero di San Marco, a Venezia. È la pagina in cui il narratore comprende, con chiarezza definitiva, che esiste un istante, segnato dalla grazia, nel quale il passato viene finalmente ritrovato e quindi salvato, se non addirittura risuscitato. Che questo accada in un battistero non è davvero impressionante».E poi?«Poi c’è la visione della nonna morta, che fa riemergere nel narratore il ricordo di un altro momento vissuto in quella stessa stanza nella casa di Balbec. La crisi respiratoria, il corpo spossato dalla stanchezza, la nonna che si china per sciogliere i lacci delle scarpe al piccolo malato. Il richiamo, questa volta, è alle parole di Giovanni Battista, che si proclama indegno di sciogliere il legaccio dei sandali a Gesù. La scena è come un tuffo nella verità e nel dolore, con una forza di immedesimazione tanto intensa da lasciare senza fiato anche chi legge».Manca la famosa madeleine.«Ci stavo arrivando, infatti. Comincia tutto da lì, dal biscotto che, inzuppato nel tè, risveglia sensazioni altrimenti dimenticate. Una metafora eucaristica, questa volta, resa ancora più stringente dal fatto che la madeleine deve la sua forma di conchiglia al segno di riconoscimento che portavano su di sé i pellegrini diretti a Santiago di Compostela».Da dove veniva a Proust questa sensibilità?«Di sicuro non dalla famiglia, fortemente laicizzata com’era normale nell’alta borghesia francese dell’epoca. La madre era di origine ebraica, è vero, e il padre cristiano, ma nessuno dei due era praticante. C’è, però, un contesto culturale in cui lo scrittore era immerso e la cui importanza, del resto, è stata ampiamente accertata in sede critica. Basti pensare al lungo periodo in cui Proust studia e traduce le opere di John Ruskin, l’autore inglese al quale si deve la riscoperta del Medioevo artistico. Qui era stata proprio la madre a svolgere il ruolo di mediazione. La fascinazione estetica per le cattedrali, del resto, è un tema ricorrente nella cultura simbolista tra Otto e Novecento. Appassionato lettore di Ruskin, Proust arriva però a prenderne le distanze, obbedendo a un principio di contraddizione interna che incontriamo più volte nella Recherche».In che senso?«Proust attinge in ugual misura alla filosofia di Bergson e a quella, apparentemente inconciliabile, di Schopenhauer. Per il primo la realtà così come la conosciamo è l’involucro che nasconde un’interiorità gioiosa. Per il pensatore tedesco, invece, illusoria è la bellezza proveniente dai sensi, al di sotto della quale cova la verità della sofferenza cosmica. Posizioni diametralmente opposte, ma che hanno in comune la convinzione, centrale in Proust, di una superficie esterna che separa l’uomo da ciò che gli è essenziale. Molte citazioni bibliche, più o meno involontarie, obbediscono a questa logica».Nei suoi studi lei ha spesso sottolineato l’importanza che il caso Dreyfus ha rivestito per Proust: come?«Più che per il caso in sé, che pure riguardava lo scrittore per la pur parziale ascendenza ebraica, l’episodio è importante perché mette Proust in contatto con la categoria del giusto perseguitato o, se si preferisce, del capro espiatorio, vittima incolpevole su cui si scarica la violenza del gruppo. La sventura di Dreyfus diventa, per lui, la rivelazione di un fenomeno universale e personale che attraversa tutta la Recherche».