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Rivelazioni. Pérez Esquivel. Salvato dal cardinale Arns

Gherardo Milanesi domenica 20 aprile 2014
RIO DE JANEIRO - «Mi ha salvato la vi­ta due volte. Mi a­vevano messo un cappuccio in te­sta e mi facevano sentire una regi­strazione di per­sone torturate. Sollevavano il cappuccio solo quando volevano che identificassi altri latinoa­mericani che erano perseguitati dalla dittatura. Speravano che io denunciassi gli oppositori al regime in Brasile, ma io ripetevo che non co­noscevo nessuno». Era il 1975 e il professor A­dolfo Pérez Esquivel, argentino, premio Nobel per la Pace cinque anni più tardi per la sua lot­ta contro la dittatura e la difesa dei diritti uma­ni, si trovava in un luogo di detenzione non spe­cificato a San Paolo, in Brasile. «Fu il cardinale Paulo Evaristo Arns, allora arcivescovo di San Paolo, a salvarmi la vita – racconta il Nobel ar­gentino –. Organizzò una manifestazione da­vanti alla porta del commissariato dove mi a­vevano arrestato riunendo religiosi e difensori dei diritti umani. I militari mi liberarono».  Una rivelazione inedita che mette ancora una volta in luce non solo i crimini commessi du­rante gli anni della buia parentesi militare in Brasile e in altri Paesi della regione, ma anche l’operato della Chiesa cattolica che in quel pe­riodo, nonostante le accuse contro alcuni pre­lati, si schierò dalla parte dei perseguitati.  Nel 1964, il governo dell’allora presidente bra­siliano João Goulart fu segnato dall’inflazione alta, dalla depressione economica e da una te­mibile opposizione delle Forze armate che a­vevano organizzato, con i militari dei Paesi vi­cini, la famigerata operazione Condor, il piano concordato negli anni settanta tra le dittature latinoamericane per reprimere le riforme pro­gressiste del continente. Il 31 marzo del 1964 le Forze Armate realizzano un golpe, destituendo Goulart. I leader del col­po di Stato, tra cui i governatori degli stati di Rio de Janeiro, di Minas Gerais e di San Paolo, scel­sero come presidente il generale Humberto de Alencar Castelo Branco, al quale seguirono al­tri generali fino al 1984. Per quasi due decenni vennero soppressi molti diritti costituzionali ed eliminate le persone e le istituzioni legate al pre­sunto tentativo di golpe comunista che aveva giustificato l’instaurarsi della dittatura militare. In seguito al golpe venne imposta una ferrea censura alla stampa e dopo il decreto istituzio­nale con il quale, nel dicembre del 1968, venne chiuso il Parlamento, furono anche negati i di­ritti politici tanto che i partiti allora esistenti vennero sciolti ed ebbe inizio l’intensificazione della repressione politica contro i comunisti.  Già allora il professor Pérez Esquivel era un no­me presente nelle liste degli oppositori invisi ai regimi militari e in particolare a quello argenti­no del generale Jorge Videla. In Brasile venne infatti arrestato la prima volta nel 1975, non per presunti reati commessi in quel Paese, ma per la sua militanza nei movimenti di difesa dei di­ritti umani a Buenos Aires. Venne fermato dai militari mentre si stava recando proprio dal car­dinale cardinale a San Paolo: «In quella circo­stanza ebbi paura di morire. Erano in tre a in­terrogarmi: il primo diceva che mi avrebbero ucciso, il secondo che mi avrebbero torturato e il terzo, che faceva la parte dell’amico, mi con­sigliava di collaborare. Il cardinale certamente parlò con le autorità brasiliane affinché mi liberassero, ma non so cosa fece esattamente. Quello che so è che non perse tempo per orga­nizzare una manifestazione davanti al com­missariato per salvarmi. E mi salvò».  Quando venne liberato, invece che tornare in Argentina, Pérez Esquivel si riunì subito con il porporato brasiliano per discutere della re­pressione nella regione. Il premio Nobel aveva iniziato a collaborare con alcuni gruppi pacifi­sti di cattolici latinoamericani e, nel 1974, ave­va già deciso di lasciare l’insegnamento nella facoltà di architettura per dedicarsi interamen­te all’assistenza ai poveri e alla lotta contro le in­giustizie sociali e politiche.  La seconda volta che Adolfo Pérez Esquivel ven­ne arrestato in Brasile era il 1981 e il pacifista a­veva appena ricevuto il Nobel per la pace. «Al­l’Ordine degli avvocati di Rio de Janeiro feci un discorso contro la legge sull’amnistia ai milita­ri responsabili di crimini durante la dittatura. Ma venni arrestato di nuovo a San Paolo, dove mi stavo recando per un incontro con alcuni re­ligiosi, incluso lo stesso cardinale Arns». Come cinque anni prima, il porporato, che alla fine degli anni Sessanta condusse il progetto Tortu­ra nunca mais (Mai più tortura), organizzò una manifestazione di protesta davanti al commis­sariato dove era stato condotto il premio No­bel. «Riunì religiosi, difensori dei diritti umani e gente comune e grazie a questo e alla sua de­terminazione venni liberato di nuovo».  Adolfo Pérez Esquivel venne arrestato altre due volte in America Latina: nel 1976 fu incarcera­to in Ecuador. Nel 1977 venne invece fermato dalla polizia argentina, che lo torturò e lo ten­ne in stato di fermo per ben quattordici mesi senza processo. Mentre si trovava in prigione, ricevette il Memoriale della Pace di Papa Gio­vanni XXIII e nel 1999 anche il Premio Pacem in Terris, che si ispirava all’ultima enciclica del Pontefice. Nel 1995 pubblicò il libro Caminan­do junto al pueblo,  nel quale racconta la sua e­sperienza di attivista. Dal 2003 è presidente del­la Lega internazionale per i diritti umani e la li­berazione dei popoli e dirige una Ong,  Servicio de Paz e Jusiticia (Serjap), che ha sede in Ar­gentina. Le sue rivelazioni arrivano in Brasile in un mo­mento delicato in cui il dibattito aperto dalla presidente Dilma Rousseff su come agire con­tro i responsabili di crimini durante la dittatu­ra (una repressione di cui lei stessa è stata vit­tima) non ha prodotto risultati lontanamente paragonabili a quelli avuti ad esempio in Cile o in Argentina. In Brasile, a differenza di questi e altri Paesi della regione dove i militari sono sta­ti condannati e imprigionati, anche se in molti casi successivamente liberati, questo dibattito sembra lontano dalle priorità del Paese e dal­l’interesse generale dell’opinione pubblica mol­to più preoccupata per i Mondiali di calcio e le difficoltà economiche.