Agorà

Le prediche di Spoleto. Roberta Vinerba: «Il volto del Padre illuminato dalla croce»

Roberta Vinerba domenica 2 luglio 2017

Il "Crocifisso dei Servi" di Donatello, a Padova (Museo Diocesano di Padova)

Gesù ci consegna, nella preghiera del Padre nostro, sette domande. Mentre le ultime quattro «offrono alla sua grazia la nostra miseria» ( Catechismo della Chiesa cattolica, 2803), le prime tre dicono la nostra vera identità nello strapparci dal baricentro autoreferenziale dell’io per gettarci nella contemplazione adorante del Padre. Il protagonista qui è il Tu del Padre e non la nostra indigenza. Chi ama non può che indirizzare tutto se stesso verso l’amato. Così noi, figli nel Figlio, partecipiamo di questo desiderio ardente del Figlio per la gloria del Padre e siamo aiutati a desiderare bene, a desiderare attendendo un compimento e attendendolo fattivamente.

Che cosa desideriamo quando chiediamo che il suo Nome sia santificato? Desideriamo che in noi si compiano «tutti i misteri di Cristo» ( Fonti Francescane, 811), che il nostro battesimo giunga a piena fioritura fino al frutto maturo del Paradiso e che vedendo in noi questa pienezza di vita, altri giungano a glorificare il Padre. Desideriamo che il Padre sia conosciuto e sia reso trasparente dalla nostra vita: «risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16).

Gesù prima di essere arrestato prega: «Padre giusto il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato, sia in essi e io in loro» (Gv 17,25-26). Gesù è il rivelatore del Nome, conosce il Padre perché viene da lui, ed è anche l’unico che può dire chi è Dio. Per la cultura semitica la domanda andrebbe posta in questi termini: qual è il nome di Dio? Poiché il nome era identificato con l’essenza della persona stessa, conoscerlo era come possederne il segreto intimo. Il nome è lo svelamento della propria intimità, è rendersi accessibili all’altro, rendersi vulnerabili, aprire un varco in se stessi perché l’altro possa entrarvi. Dire il nome significa dirsi disponibili alla relazione, è farsi dono all’altro. Una relazione inizia con un come ti chiami? Da qui la confidenza, l’essere parte della vita di qualcuno, possederne, in qualche misura, la chiave di accesso.

Dio consegna il proprio nome a Mosè (cf Es 3,14) e nel rivelarsi come Colui che è rivela se stesso come Colui che è, che era – il Dio dei Padri (cf Es 3,6.13) e che sarà – la promessa per il futuro (cf Es 3,8.17). JHWH rivela se stesso come il Dio vivo che agisce nella storia, altro rispetto a Mosé (cf Es 3,5) eppure vicino (cf Es 33,11), altro rispetto ad Israele (cf Es 19,23) eppure vicino (cf Sir 24,7-8). Il Nome si è dato ad Israele con patto di fedeltà: «Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi e io non vi respingerò. Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo. Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta» (Lv 26,11-13); come uno sposo alla sposa: «come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (Is 62,5b).

La fedeltà di Dio a Israele resterà nonostante Israele. Nonostante Israele cerchi continuamente di farsi un nome facendo a meno del Nome, nonostante Israele che pur esprimendo con la riverenza cultuale la sacralità del Nome non vi corrisponderà con l’adesione del cuore: «Questo popolo si avvicina a me solo con la sua bocca e mi onora con le sue labbra mentre il suo cuore è lontano da me e la venerazione che ha verso di me è un imparaticcio di precetti umani» (Is 29,13). Israele non comprende l’amore con il quale Dio lo ama: non comprende la gratuita irrazionale preferenza di Dio e con il suo comportamento disonora il Nome. «Giunsero fra le nazioni dove erano stati spinti e profanarono il mio nome santo, perché di loro si diceva: “Costoro sono il popolo del Signore e tuttavia sono stati scacciati dal suo paese”. Ma io ho avuto riguardo del mio nome santo, che la casa d’Israele aveva profanato fra le nazioni presso le quali era giunta» (Ez 36,20-21). Qui il tema del Nome si intreccia con quello della santità. Dio è santo perché usa misericordia, perché si china continuamente in favore di un popolo ribelle. Egli conosce solo il movimento di discesa: «Sono sceso per liberarlo« (Es 3,8) disse a Mosè riguardo Israele e continua questo movimento nel voler restare presso Israele pur in mezzo alle sue prostituzioni. Il Nome liberante è il Nome santo.

La discesa, la kenosis Dio, in ultimo, la compie mandando l’Amato, il Figlio perché «il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17b) fino alla discesa estrema della croce, il luogo nel quale la santità di Dio si rivela pienamente. E rivelandosi si vela nuovamente: perché non è cosa umana comprendere che la gloria di Dio (gloria nella scrittura è sinonimo di santità) sia un uomo nudo illividito su una croce.

La santità di Dio dunque, è la sapienza della croce là dove si svela un amore che si fa carico dell’altro fino a non tenere niente per sé. Dio è il Santo che soffre.

Santificare il nome di Dio è lasciare che lo Spirito in noi faccia morire le opere della carne, l’uomo vecchio che vuol farsi da solo, che vuole farsi Dio e che nega l’esistenza e la dignità a qualunque altro nome che non sia il proprio. Quando preghiamo che venga santificato il nome di Dio, altro non desideriamo che il Nome di Dio rivelato da Gesù, quello di Padre, sia così trasparente in noi, così luminoso in noi, nella nostra vita ordinaria, da illuminare tutti quelli che si trovano in questa casa comune che è la famiglia umana e la storia tutta.