Agorà

Ultimo tour. Pooh, lacrime e ovazioni per i concerti dell’addio

Andrea Pedrinelli sabato 18 luglio 2009
«Stare qui è un’emozione, ma/è un’astronave che/non scende a terra mai/Anche se/vorrei sbarcare un po’…». Inizia così, la fine della storia dei Pooh. I Pooh come li conosciamo dal ’73, banda nel vento da 50 milioni di dischi, in un’atmosfera che dire commossa è poco. Morbegno, Valtellina, prova generale dell’ultimo tour di Facchinetti Battaglia Canzian D’Orazio prima dell’addio di quest’ultimo, tour che parte oggi alla Reggia di Caserta, 36 date con prevendite a gonfie vele e finale milanese del 28 settembre sold out in un mese. I Pooh replicheranno il 30, quando il sipario calerà in modo definitivo.Ma da subito non è il solito concerto dei Pooh: né potrebbe esserlo. Sì: manager, imprenditori, comunicatori scafati. Sono pure questo. Ma stavolta vince il fattore umano. E lo sanno, che la musica di quarant’anni amplificherà le emozioni della pagina di vita che sono costretti a girare: «Sarà la tournée più difficile». Anche se D’Orazio ora pare sereno e ringrazia: «La gente che ha capito la mia scelta, Red, Roby e Dodi che non mi fanno sentire in colpa per averli messi in difficoltà». E anche se i tre non sono più attoniti come un mese fa: «A fine agosto discuteremo il futuro. Voglia di andare avanti c’è. Come? Orchestra, big band… Chissà. Certo rispettando la nostra storia». Poi è tempo di palco. E i Pooh ci mettono l’anima come mai, tra strumenti e canzoni che forse oggi sono la loro unica salvezza, la coperta di Linus. Bisogna vederli, i Pooh: in questo concerto del cuore, della voglia di allungare anche un attimo i loro giorni non più infiniti. Altro che manager. Canzian cerca sostegno nello sguardo della moglie e interpreta ogni parola come avesse paura di perdersi qualcosa. Battaglia chiude gli occhi sulla chitarra mentre la fa gridare e la carezza. Facchinetti scarica sul pianoforte la rabbia di quando ci dice «Non pensavi finisse così, eh?» e l’amore di quando parla di una musica che è la sua vita. Poi D’Orazio. Lui non si fa mancare niente, batteria con apertura alare dieci metri, gong, tre set di percussioni: e ci scaraventa su la fatica evidente di una scelta, gli va riconosciuto, coraggiosa. È lui che apre il concerto coi versi premonitori dell’82. È lui a parlare per primo: «Il tempo passa, ho deciso di scendere, ho dato tutto, su questo palco lascio il cuore», poi gli manca l’aria. È lui a chiuderlo, fra cori e standing ovation per la voglia della gente di goderseli: anche perché hai visto mai non finisca così. Ma sono troppo seri i Pooh perché sia uno scherzo. Si vede quando si giunge ad «Ancora una notte insieme», canzone scritta ad hoc ma con la sorpresa di D’Orazio sul proscenio anche per ultimo. «Se il tempo è prepotente e ci spreme / Regala un orizzonte e ancora una notte insieme». L’effetto? Dei suoi colleghi uno trattiene a stento le lacrime, l’altro lo abbraccia forte, il terzo scappa piangendo. «Mi sono dovuto violentare un paio di volte per non piangere pure io» dirà D’Orazio dopo. «La gente mi intontiva con il suo affetto, a guardare i colleghi era peggio…». Si chiudono gli anni senza fiato dei Pooh, i signori del pop scendono. Solo l’ultima scommessa non l’hanno vinta, quella di un tour «Per poter dare ai fatti un nome / che non sia fine». E invece altro nome non c’è. Ora ci vorrà il coraggio di non tornare indietro. Non lo merita il popolo dei Pooh, numeroso e sottovalutato perché la normalità non fa rumore. Famiglie, nonni e nipoti, quarantenni e signore, la gente comune che ha trovato serenità nelle loro canzoni, ha apprezzato la loro serietà di gente che lavora duro, li ha sentiti raccontare le piccole grandi vicende d’ogni giorno. E non meriterebbe retromarce neanche l’unica, irripetibile storia dei Pooh, una storia che fra oggi e il 30 settembre proverà – per la prima volta – a musicare una parola strana.