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Paleologia. L'Uomo di PILTDOWN, il falso anello mancante

Giuseppe O. Longo martedì 13 settembre 2016
Nel dicembre 1912 il paleontologo Arthur Smith Woodward, curatore del settore Geologia del British Museum, e Charles Dawson, archeologo dilettante e avvocato, annunciarono davanti alla Geological Society di Londra una scoperta sensazionale:  i resti fossili di un nuovo ominide, l’Eoanthropus dawsoni o «uomo di Piltdown».  La scoperta era stata fatta da Dowson, che l’aveva comunicata a Smith Woodward in una lettera del febbraio 1912, asserendo di aver rinvenuto «un grosso frammento di cranio umano capace di rivaleggiare in dimensioni con Homo heidelbergensis». Quest’ultimo ominide, ritrovato nel 1907, aveva dato lustro alla Germania, attribuendole un ruolo chiave nella storia dell’evoluzione umana. Ora la scoperta dell’uomo di Piltdown avrebbe non solo conferito prestigio a Dawson e a Smith Woodward, ma avrebbe anche assicurato alla Gran Bretagna un posto d’onore nel quadro delle scoperte paleoantropologiche.  Ma si trattava di un falso clamoroso. Il materiale presentato, rinvenuto in un deposito di ghiaia presso il villaggio di Piltdown, nel Sussex, consisteva essenzialmente in una mandibola di primate contenente due molari e in alcune parti di un cranio di tipo umano: si trattava senz’altro, così si disse, del famoso 'anello mancante' tra scimmia e uomo. Gli scavi continuarono tra il 1913 e il 1914, portando ad altri ritrovamenti, ma furono interrotti dallo scoppio della prima guerra mondiale e dall’aggravarsi delle condizioni di salute di Dawson, che morì il 10 agosto 1916, un secolo fa. Ma ormai l’annuncio dell’Eoanthropus aveva suscitato grande interesse sia tra gli specialisti sia tra il pubblico e di lì a poco la scoperta fu accreditata come autentica. Ci vollero più di quarant’anni perché questo astutissimo imbroglio fosse smascherato pubblicamente.  Vi furono, è vero, alcuni che fin dall’inizio dubitarono dell’autenticità del ritrovamento sulla base di vistose incongruenze cronologiche e anatomiche; inoltre le scoperte compiute in Cina, Indonesia e Africa negli anni Venti e Trenta di fossili di antichi ominidi contribuirono ad affievolire l’interesse intorno all’uomo di Piltdown (nessuno di questi fossili presentava la singolare combinazione da 'anello mancante' di una mandibola di primate e di un cranio umano). Ma tutto sommato la storia di Dawson e Smith Woodward resisteva.  Fu solo molti anni dopo che, all’insegna dello scetticismo, l’antropologo del British Museum Kenneth Oakley, affiancato dagli scienziati oxoniensi Joseph Weiner e Wilfrid Le Gros Clark, intraprese uno studio sistematico dei frammenti di Piltdown, dimostrando che la mandibola era molto più recente di quanto asserito da Dawson. Gli studi di questi specialisti, pubblicati nel 1953 e 1955, appurarono che la mandibola, appartenente a un orango e molto recente, era stata modificata artatamente, colo- rata e sepolta a Piltdown insieme con parti di un cranio umano anch’esso di data recente, del pari tinteggiato a chiazze per uniformarne il colore a quello della ghiaia. Ma nonostante lo smascheramento del falso, restavano ancora alcune incertezze relative a quanti avessero montato la truffa. Tra i sospetti, in primo luogo Dawson e Smith Woodward. Ma erano indiziati anche altri, tra cui il gesuita Pierre Teilhard de Chardin, che era stato presente ad alcuni scavi e aveva scoperto un dente dell’asserito ominide. Teilhard, insigne paleontologo e filosofo dell’evoluzione, aveva viaggiato nella regione africana da cui proveniva uno dei reperti e, fatto abbastanza significativo, all’epoca del primo ritrovamento risiedeva nelle vicinanze di Piltdown.  Un articolo pubblicato il 10 agosto scorso (per ironia della sorte a cent’anni giusti dalla morte di Dawson) su Royal Society Open Science fornisce un resoconto assai preciso di questa frode e, soprattutto, una descrizione delle complesse indagini che hanno portato ad attribuirla al solo Dawson. Più dei particolari tecnici (datazione al radiocarbonio, esame del Dna...) interessa il lato umano della vicenda: perché mai un avvocato di successo, noto per le competenze di geologo, archeologo e storico, possessore di una cospicua collezione di fossili depositata al British Museum, divenne contraffattore di reperti?  È opinione di parecchi che Dawson fosse mosso dalla bruciante ambizione di divenire membro della Royal Society. Tra il 1883 e il 1909 egli fu autore o coautore di oltre cinquanta pubblicazioni scientifiche, che tuttavia non diedero un impulso decisivo alla sua carriera. In una lettera del 1909 all’amico Smith Woodward egli scrive: «Aspetto sempre di fare il grande ritrovamento, che però non arriva mai». Nello stesso anno il fratello minore di Dawson, ufficiale e direttore degli appalti per la Marina britannica, fu insignito del cavalierato e, per quella che è difficile considerare una coincidenza, sei settimane dopo, il 28 dicembre 1909, la moglie di Dawson, Hélène, scrisse al Ministro dell’Interno Herbert Gladstone: «Per un quarto di secolo mio marito ha dedicato il suo tempo libero alla ricerca scientifica, contribuendo grandemente alle collezioni di Storia Naturale del British Museum. Penso che Voi converrete che i suoi servigi, assolutamente non retribuiti, meritino qualche forma di riconoscimento... Vi sarei grata se poteste farlo insignire dell’Ordine del Bagno [un prestigioso cavalierato] ». La lettera tuttavia non ebbe alcun seguito. Forse già a quel tempo, spinto dall’ambizione, Dawson stava architettando la frode di Piltdown, che finalmente nel 1913 gli valse la candidatura a membro della Royal Society. Non fu eletto, cosa peraltro abbastanza frequente alla prima candidatura: se fosse vissuto avrebbe forse potuto attuare il suo sogno, per quanto grazie a un imbroglio. Ma non lo sapremo mai.