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Letteratura. Ravasi: PICCIONI, l'amico del Novecento

Gianfranco Ravasi sabato 9 maggio 2015

Riproduciamo il contributo del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, al volume che l’editore Pananti pubblica fuori commercio in occasione del novantesimo compleanno del critico letterario Leone Piccioni (Maestro e amico, a cura di Gloria Piccioni, pagine 160, s.i.p.: tra gli altri autori Giuseppe Conte, Claudio Magris, Marta Morazzoni, Roberto Mussapi, Daniele Piccini e Sergio Zavoli). Nato a Torino il 9 maggio 1925, Piccioni ha legato il suo nome alla figura e all’opera di Giuseppe Ungaretti, di cui fu allievo alla Sapienza di Roma dopo aver studiato a Firenze alla scuola di Giuseppe De Robertis. Oltre che in numerosi saggi e nella curatela del fondamentale “Meridiano” Mondadori che presenta l’intera opera del poeta (Vita d’un uomo, 1969), il rapporto tra Piccioni e Ungaretti si è concretizzato in un sodalizio intellettuale e professionale del quale rendono conto le lettere ora raccolte in L’allegria è il mio elemento (a cura di Silvia Zoppi Garampi, Mondadori, 2013), dove l’autore del Porto sepolto appare anche nell’inconsueto ruolo di consulente per la trasmissione televisiva “L’Approdo”. Piccioni, infatti, ha lavorato a lungo per la Rai, giungendo a ricoprire la carica di vicedirettore generale e svolgendo nel frattempo un’intensa attività di insegnamento universitario e di ricerca. Tra i suoi libri più recenti vanno segnalati gli scritti di Vecchie carte e nuove schede (Nicomp Laboratorio Editoriale, 2011), che coprono l’arco temporale dal 1950 al 2010.Nelle muraglie di libri che fanno da parete alle stanze della mia residenza c’è anche quel volume che acquistai proprio a Roma nel 1969, alla soglia del mio rientro a Milano dopo aver concluso i miei studi teologici, in attesa di iniziare quell’insegnamento che avrebbe occupato buona parte della mia vita. Ero allora un giovane sacerdote e da sempre amavo la poesia: quel testo era Vita di un uomo e raccoglieva – come è noto – le poesie di Ungaretti e quattro studi su questo straordinario poeta, talmente amato da aver fatto sì che quel “Meridiano” mondadoriano divenisse il libro più riedito e venduto della collana ancor oggi viva.  Fu quello il mio primo incontro con Leone Piccioni: egli aveva introdotto quella raccolta, vi aveva allegato – oltre ai tradizionali apparati critici e bibliografici – anche un saggio sulle Origini della “ Terra promessa”. Mai avrei immaginato che quella figura così rilevante del panorama culturale italiano, che non esitava a confrontarsi anche col giornalismo televisivo e con la comunicazione di massa, una ventina d’anni dopo avrebbe incrociato la mia stessa esperienza personale e intellettuale. L’8 dicembre 1990 mi veniva assegnato a Potenza il Premio Basilicata nella sezione riservata alla letteratura spirituale e alla poesia religiosa e tra i giurati sedeva proprio Leone Piccioni.  Da quel momento iniziava a snodarsi una sorta di catena di incontri i cui anelli annuali erano agganciati proprio a quel Premio perché anch’io successivamente ero stato cooptato nella giuria e poco dopo Piccioni ne era divenuto il presidente. Fu così che una conoscenza prima implicita e poi “ufficiale” si trasformò in una spontanea consonanza ideale fatta di simpatia e sintonia spirituale e culturale. Sì, perché Leone, che poteva allegare una straordinaria bibliografia critica, custodiva anche una religiosità interiore, non ostentata ma genuina e testimoniata con lievità e finezza.  Da un lato, infatti, era un vero godimento della mente ascoltare i racconti della sua intensa esperienza di letterato a contatto con le figure più significative e suggestive del secondo Novecento. Con esse egli non aveva solo una consuetudine legata alla lettura dei loro scritti, che riversava poi nei suoi molteplici saggi critici, ma con quegli autori egli aveva stabilito anche un contatto vivo, alimentato di ricordi, di aneddoti, di contrappunti, di vicende vissute insieme. Non per nulla una sua opera del 1969 s’intitolava emblematicamente Maestri e amici. D’altro lato, però, c’era anche quella sua spiritualità, ereditata dalla famiglia e vissuta con spontaneità. In occasione del Premio Basilicata io celebravo la Messa domenicale nella cattedrale di Potenza o di qualche altra città lucana. Ricordo ancora la presenza attenta di Leone Piccioni che voleva sempre partecipare a ogni liturgia, così come  rievoco ancor oggi il suo breve dialogo con l’allora cardinale Ratzinger, uno dei premiati degli anni successivi. Il futuro pontefice aveva voluto, infatti, conoscere prima da me il profilo del presidente della giuria ed era stato impressionato dal suo legame con Ungaretti, un poeta che il cardinale ammirava in modo particolare. Nel 2007 lo stesso Benedetto XVI mi chiamava a Roma come “ministro” della cultura della Santa Sede. Il 28 ottobre di quell’anno scesi a Potenza per rassegnare le mie dimissioni dalla giuria del Premio e per salutare i molti amici che là avevo conosciuto. Fu questo l’ultimo incontro diretto con Leone: a Roma abbiamo avuto solo qualche contatto telefonico e notizie attraverso la figlia Gloria. Ed è ancora a lei che devo ora la possibilità di esprimere il mio augurio più affettuoso a suo padre perché questa tappa così importante della sua vita possa aprirsi ad altri anni di serenità, di ricerca, di affetti. Un teologo appassionato come Dietrich Bonhoeffer, martire sotto il nazismo, chiedeva a Dio di venirgli incontro con la dolcezza e la bellezza di un crepuscolo dai colori tenui ma iridescenti. C’è, infatti, un fascino anche nella vecchiaia accolta con tranquillità e coraggio. Ho avuto occasione di leggere altri testi di Piccioni dopo quel lontano “Meridiano” ungarettiano. Ho, ad esempio, viaggiato con lui nella «contraddittoria, esplosiva, ed anche lieta e arrischiata vivacità e tragicità » dell’America col suo Troppa morte, troppa vita. Ho condotto i miei primi itinerari nella Russia sovietica accompagnato dal suo diario Lavagna bianca. L’ho seguito nella sua originale galleria di  Profili, ove s’affacciavano i ritratti di Saba, Cardarelli, Montale e dell’amato Ungaretti. Ho avuto la dimostrazione, da un occhio così  artigliante come il suo, che esistono Maestri veri e maestri del nulla. Tanti altri sono i testi che i suoi colleghi hanno conosciuto come frutto di un impegno costante, rigoroso e talora anche dialettico. A me rimane, comunque, particolarmente cara la sua testimonianza presente in una raccolta curata da Santino Bonsera nei “Quaderni del Circolo Silvio Spaventa Filippi” di Potenza, e posta sotto il titolo bellissimo Memoria e fedeltà. Anche la mia amicizia, sia pure sottintesa e non esplicita, custodisce una “memoria” profonda di Leone, un ricordo nel senso etimologico di “riportare al cuore” e rivivere idee, eventi, immagini, momenti festosi e preziosi. Essa genera la vera “fedeltà” dei sentimenti, dei pensieri, degli affetti. Aveva infatti ragione Giorgio Pasquali quando in Filologia e storia osservava che «chi non ricorda non vive».