Agorà

Protagonisti. Piccinini, fare il medico per incontrare la felicità

Marina Corradi martedì 1 giugno 2021

Enzo Piccinini con don Luigi Giussani

Chi nei primi anni 70 non c’era non può sapere quale clima stava iniziando in Italia, in quel momento. La tragedia di piazza Fontana a Milano aveva inaugurato una stagione di sangue. Fascisti, servizi 'deviati', terrorismo rosso si organizzavano in clandestinità. Gli anni di piombo incombevano sul Paese. La rinascita del dopo guerra, il boom economico, già lontanissimi. Si respirava una nuova, quasi tangibile paura. Reggio Emilia era una città profondamente 'rossa'. Comunisti i padri ed extraparlamentari i figli, molti almeno. Si riunivano in una casa detta l’'appartamento'. Un gran viavai di giovani, cortei, slogan. Tanti parlavano e basta. Ma anche Prospero Gallinari, carceriere di Aldo Moro, e Alberto Franceschini, tra i fondatori delle Br, uscirono da quel vivaio. Sorprende quindi la storia di un ragazzo emiliano che frequentava quello stesso appartamento, quel giro, e poi invece è diventato un medico, e un 'figlio' molto caro di don Giussani. Si è sposato, quel ragazzo, ha avuto figli, è stato un eccellente chirurgo e un medico molto amato: poi è morto, ad appena 48 anni, nel 1999.

Proclamato servo di Dio, c’è il nulla osta dal Vaticano per l’apertura della causa di canonizzazione. Ben singolare destino quello di Enzo Piccinini, classe 1951, figlio di coltivatori, segnato ad appena 14 anni dalla morte, sotto ai suoi occhi, di un fratello. Ragazzo instancabile e appassionato, che forse per un istante ha corso il rischio di bruciare nel terrorismo la sua ansia di vita e di giustizia. Ho fatto tutto per essere felice. Enzo Piccinini, storia di un insolito chirurgo, di Marco Bardazzi (Rizzoli, pagine 240, euro 16,00), ripercorre l’inten- sa, breve vita di un uomo che correva sempre, correva dalle sale operatorie di Bologna a Modena, dove aveva la moglie Fiorisa e quattro figli, a Milano, dove raggiungeva il 'Gius' e gli amici di Cl. Amici come mai, per uno che veniva dall’'appartamento' di Reggio? È che a Reggio negli stessi anni c’era anche la libreria One Way, frequentata da giovani giessini, e i due gruppi nei primi anni 70 si mescolavano - ardenti entrambi, ma di fuochi diversi.

Ci fu chi da Gs se ne andò, e chi invece, come Piccinini, insistette per capire a cosa credessero, i ragazzi che si trovavano nella cripta di una chiesa a recitare i Vespri. Piccinini si laurea, segue un primario, ne fa il suo maestro, ma presto capisce che è un cinico. «Cose da ragazzi», dice quel professore delle speranze dell’allievo, cose che bisogna abbandonare per diventare 'grandi'. Il giovane medico, invece, abbandona il maestro: e ne cerca altri, anche se, dirà poi, «chi mi ha insegnato a fare il medico è Giussani ». Non la tecnica, certo, ma lo sguardo: il paziente è prima di tutto una persona. È uno da ascoltare, da accompagnare, da curare nel migliore dei modi (e Piccinini girava ospedali e Università di tutto il mondo, per aggiornarsi sempre). Ma se, poi, curare non basta, il paziente era per lui uno a cui stare accanto fino all’ultimo. I testimoni raccontano che a chi stava morendo quel medico diceva, da fratello, che «tornare da Dio, non è un male».

E qualche moribondo, dopo anni, chiedeva di confessarsi. Era un uomo insomma, Enzo, che non arretrava davanti alla morte, come è dei veri cristiani: che quel giorno, promessa e insieme limite inesorabile della vita terrena, lo hanno sempre presente. «Che io muoia, che voi moriate è un’assoluta verità», diceva Piccinini bruscamente ai suoi studenti. Non censurava la morte né per paura né per 'educazione', in questo nostro tempo in cui non la si poteva quasi nominare: finché non è arrivato il Covid, a ricordarci aspramente che è possibile morire anche da giovani, anche in pochi giorni.

Scoperta che ha raggelato il mondo, o perlomeno l’Occidente, giacché i poveri, a morire ci sono abituati. Viene da chiedersi cosa avrebbe fatto il dottor Piccinini, se la notte del 26 maggio 1999 la sua morte non lo avesse atteso sull’Autosole, e se fosse stato fra noi nel 2020. Certamente sarebbe stato in prima linea, e quanto, negli ospedali dove i vecchi morivano soli, avrebbe dato a tanti, e perfino a suoi colleghi. Perché numerosissimi, certo, sono i medici che hanno perduto la vita nella pandemia, e quanti quelli che, freschi di laurea, si sono ritrovati in corsia come su un fronte, e hanno combattuto duramente. Tuttavia, questo non può fare dimenticare come prima del Covid il rapporto fra paziente e medico fosse in crisi. Migliaia di cause intentate dai pazienti insoddisfatti delle cure ricevute o forse, e prima ancora, di un rapporto umano che non c’era. Scarso ascolto del malato, visite frettolose, lo sguardo solo su esami e Tac e mai negli occhi di chi, inerme davanti a uno sconosciuto, chiede aiuto. Prima che la tragedia della pandemia portasse gli italiani a dire ai medici 'siete eroi', si percepiva un solco diventato profondo fra quei due, il malato e il medico.

Non con tutti i medici, certo. Ma nemmeno con pochi. Come se qualcosa non fosse stato trasmesso, dalla generazione precedente. Come se ci si stesse abituando a considerare gli uomini come macchine guaste. Senza quindi guardarli negli occhi. Senza ricordarsi che sono, come diceva per prima cosa il dottor Piccinini ai suoi studenti, persone. Un libro, questo, da regalare agli studenti di medicina, perché si chiedano quali medici vogliono essere, e anche ai primari e ai luminari, perché si domandino quali medici sono diventati. Come, poi, sia diventato ciò che è stato quel ragazzo che a Reggio Emilia frequentava anche futuri brigatisti, come - quasi nello scatto di un invisibile scambio - il suo destino sia radicalmente cambiato, e ora si vada preparando per lui la causa di canonizzazione, è uno di quei misteri che gravitano attorno alla libertà dell’uomo: la libertà di dire 'no' a Dio, oppure, audacemente, 'sì'.