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Intervista. Lella Costa: «Più responsabili, come Edith Stein»

Alessandro Zaccuri mercoledì 17 aprile 2019

Il filo può sembrare sottile, ma non si spezza mai. Lega la fenomenologia di Husserl alla trama di Piccole donne, mette in relazione Il pranzo di Babette e l’autobiografia di santa Teresa d’Avila. E riannoda molte omonimie: Edith come la Piaf, la grande cantante; Stein come Gertrude, la scrittrice inarrivabile. «All’inizio – confessa Lella Costa – ero veramente convinta che mi avessero proposto di scrivere un libro su di lei, che è stata amica di Picasso e confidente di Hemingway. Mi ci è voluto un po’ per capire che era l’altra Stein a venirmi incontro». Non è un accostamento immediato, questo tra la popolare attrice-scrittrice (che contnua a dichiararsi agnostica) ed Edith Stein, la mistica nata nel 1891 da una famiglia ebrea di Breslavia e morta nel 1942 ad Auschwitz, nonostante si fosse da tempo convertita al cattolicesimo e fosse entrata nel Carmelo con il nome di suor Teresa Benedetta dalla Croce. Un insolito dialogo a distanza che ha come esito, molto felice, Ciò che possiamo fare (Solferino, pagine 128, euro 9,90, in libreria da domani). Non una biografia, forse neppure un saggio, ma una riflessione su «la libertà di Edith Stein e lo spirito d’Europa» per la quale Lella Costa racconta di aver studiato molto. «È una storia che conoscevo solo a grandi linee – spiega –. Sapevo che Edith Stein era stata allieva di Husserl, che era un’intellettuale importante, che era un’ebrea divenuta cristiana, che è morta martire nel lager, che è stata proclamata santa e compatrona d’Europa. Ignoravo, per esempio, che scrivesse così bene».

Come pensatrice resta abbastanza impegnativa, non crede?

Non si discute, ma le sue lettere sono documenti di straordinaria bellezza. Sono testi nei quali affiora a tratti uno sguardo ironico, che probabilmente deriva dalla sua radice ebraica, mai rinnegata. Mi ha molto impressionato il fatto che nel 1933, quando annuncia alla madre l’intenzione di prendere i voti, voglia andare insieme con lei in sinagoga e le prometta che continuerà a scriverle con regolarità, una lettera alla settimana. Un impegno mantenuto fino alla fine, con una costanza commovente.

Come lo descrive lei, è un piccolo romanzo familiare.

Sì, ed è per questo che mi è venuto spontaneo rifarmi a Piccole donne.. In casa c’erano cinque sorelle, di cui quattro, come Edith, portavano un nome che cominciava con la lettera E. Poi c’era Rosa: la più semplice, la meno dotata, quella che la vita sembrava destinare a un ruolo secondario, quasi servile. Eppure è proprio Rosa a seguire Edith nella conversione, fino ad accompagnarla nella scelta della consacrazione. Sono insieme nel convento di Echt, in Olanda, quando arriva l’ordine di deportazione. In quell’occasione Edith avrebbe pronunciato la famosa frase su cui non c’è certezza storica, ma che a mio avviso rappresenta bene la visione etica che sta alla base di tutta la sua esperienza: «Vieni, Rosa, andiamo per il nostro popolo...».

Un richiamo all’identità ebraica?

Alla complessità di ogni identità, piuttosto. Edith Stein era una donna di eccezionale intelligenza, questo è noto, ma l’intelligenza induce spesso a essere intransigenti, anzitutto con se stessi. A volte, leggendo i suoi scritti, si ha un’impressione di una persona scarsamente empatica e questo è un paradosso, perché proprio l’empatia è stato uno dei temi da lei più indagati dal punto di vista filosofico. Questo non significa che la componente emotiva non abbia giocato un ruolo nelle sue scelte. Anche la conversione, così come lei stessa ce la racconta, coincide con un moto improvviso dell’anima. Resta sempre, però, un elemento di forte severità, una predisposizione all’interrogarsi e all’interrogare la realtà. Posso sbagliarmi, ma credo che per lei non fosse facile prendersi cura di Rosa, di questa sorella tanto diversa, che rischiava continuamente di rallentarla. Eppure, nonostante tutto, sceglie di non separarsi da lei: sceglie di prendersi cura, appunto.

Che cosa la colpisce di più in questa decisione?

La consapevolezza che deve aver maturato negli ultimi giorni. Non riesco a smettere di pensare a quello che dev’essere il suo stato d’animo durante l’unica settimana trascorsa ad Auschwitz. Avrà capito senz’altro che la fine si stava avvicinando e che la morte era ormai inevitabile. Sono persuasa che sia arrivata a questo passo completamente pacificata. Non poteva essere altrimenti, perché lei si era davvero offerta «per il suo popolo», ossia per ogni essere umano vessato, discriminato, perseguitato.

Sarebbe potuta andare diversamente?

Quella di Edith Stein è una storia di occasioni perdute, che conducono a un compimento inatteso. Comincia con l’abilitazione universitaria che le viene negata in quanto donna e anche perché il suo maestro, Edmund Husserl, le preferisce Martin Heidegger, che più tardi tenterà di dare fondamento filosofico allo stesso regime nazista da cui lei sarà uccisa. Prosegue con il rifiuto di trovare rifugio in Svizzera o negli Stati Uniti, dove Rosa non avrebbe potuto seguirla. Culmina nella lettera con la quale, a guerra ormai finita, una rivista accademica chiede se suor Teresa Benedetta abbia intenzione di rinnovare l’abbonamento. E poi quell’altra lettera, lucidissima, che lei invia a Pio XI nel 1933 presentandosi come «figlia del popolo ebraico, che per grazia di Dio è da undici anni figlia della Chiesa cattolica» e alla quale viene purtroppo riservata una risposta solo formale. La lezione di Edith Stein, però, rimane, ed è ancora attualissima. Esorta all’assunzione di responsabilità, all’ascolto, alla compassione. Solamente chi ha il coraggio di interrogarsi così riesce a capire quello che ancora possiamo fare per gli altri, qui e oggi.