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Testimoni. Peter Henrici: «Sulle tracce di Maurice Blondel, la Chiesa guarda al futuro»

Filippo Rizzi mercoledì 5 luglio 2023

Peter Henrici

Domani ricorre il trigesimo della scomparsa del vescovo ausiliare emerito di Coira, il gesuita svizzero Peter Henrici, scomparso all’età di 95 anni a Briga il 6 giugno scorso. Cugino di Hans Urs von Balthasar e filosofo di formazione, fu tra i massimi studiosi di Maurice Blondel, di cui si augurava l’apertura della causa di beatificazione. L’intervista che qui presentiamo è inedita e fu pensata per i 90 anni di Henrici, il 31 marzo 2018. L’articolo era stato redatto in occasione del dies accademicus dedicato a Henrici dalla Pontificia Università Gregoriana di Roma, il 16 aprile 2018, ateneo di cui fu docente e preside della facoltà di Filosofia tra il 1960 e il 1993. Il colloquio molto informale avvenne il 26 marzo 2018 presso il convento delle Orsoline di Briga. Il testo fu rivisto dall’autore, che mi chiese però di non pubblicarlo in quell’occasione perché erano presenti, a suo giudizio, aspetti «troppo celebrativi della mia personalità». Così ho mantenuto questo impegno fino alla sua scomparsa.

Classe 1928, Henrici fece il suo ingresso nella Compagnia di Gesù nel 1947 (lo stesso anno in cui conobbe l’ormai anziano e cieco Maurice Blondel a Parigi) e nel 1958 venne ordinato sacerdote; fu nominato da Giovanni Paolo II vescovo ausiliare di Coira il 4 marzo 1993 (incarico che lasciò nel 2007 per raggiunti limiti d’età). Tra gli allievi illustri che hanno avuto Henrici come professore e relatore delle loro tesi si annoverano i cardinali Karl Lehmann e Marc Ouellet, l’arcivescovo emerito di Bruxelles-Malines André Joseph Leonard, il vescovo di Latina-Terracina-Sezze Mariano Crociata e il prefetto emerito dell’Ambrosiana Franco Buzzi.

Ha voluto trascorrere il suo 90° compleanno, il 31 marzo 2018, lontano dai riflettori e nel nascondimento della sua Svizzera vivendo così la vigilia che anticipa la Pasqua con la stessa partecipazione di attesa attorno a quel «mistero del Sabato Santo» tanto caro e spesso descritto da suo cugino Hans Urs von Balthasar «con cui feci il corso di Esercizi spirituali prima di entrare, dopo la maturità, nella Compagnia di Gesù». Ma il prossimo 16 aprile, nonostante gli acciacchi dell’età e le tante incombenze di un «vescovo svizzero in pensione», Henrici, storico co-editore e padre nobile (assieme a Joseph Ratzinger) della rivista internazionale di teologia “Communio” e per vari lustri (1960-1993) docente di filosofia, sarà a Roma nella “sua” università, la Gregoriana, per parlare dell’autore che più conosce nei dettagli: Maurice Blondel, di cui è considerato uno dei massimi esperti. «Non ho potuto declinare questo invito perché si tratta di un omaggio alla mia vita accademica e a Blondel: il “filosofo del Vaticano II”, come l’ha definito Yves Marie Congar. È il pensatore che, a mio giudizio, entra di più nelle pieghe della spiritualità ignaziana. Non è un caso forse che i migliori continuatori del suo pensiero sono tutti gesuiti, da Gaston Fessard a De Lubac. E tutto questo fu il motivo principale del mio interesse per lui. E ancora oggi il suo volume più famoso, L’Action, è il mio libro “da comodino”».

Da alcuni anni Henrici – che vanta tra l’altro anche una discendenza italiana («un mio antenato, Ercole Daverio, fece parte dei garibaldini») e una lontana parentela con il vescovo ungherese Vilmos Apor (ucciso nel 1945 dai sovietici e proclamato beato nel 1997) – vive come un semplice padre nel convento sant’Ursula, gestito dalle Orsoline a Briga. Dall’abitazione di questo pastore-intellettuale, che ha scelto come motto episcopale la frase Virtus in infirmitate («perché nella debolezza, come dice san Paolo, emerge la forza della virtù»), si vede il Sempione innevato. Colpiscono i tanti libri, da Romano Guardini a Erich Przywara, che raccontano il Novecento di monsignor Henrici. A impressionare sono soprattutto gli aneddoti che affiorano dalla sua mente con al centro gli incontri con i personaggi che hanno segnato il Secolo breve («compreso il 1968 con i suoi fermenti di contestazione, anche alla Chiesa di Paolo VI»), da Carlo Maria Martini («un professore come me strappato agli studi per fare il vescovo: forse anche per questo ci siamo sempre ben capiti») a Xavier Tilliette («che riuscii a portare alla Gregoriana come docente: il migliore storico della filosofia moderna che abbia mai incontrato»), da Jean Daniélou a Michel de Certeau. «Li ho conosciuti entrambi negli anni della mia formazione gesuitica. Per il primo ho tradotto in tedesco nel 1953 l’Essai sur le mystere de l’histoire; grazie all’aiuto del secondo e delle sue indispensabili fotocopie ho invece trasposto nella stessa lingua un manoscritto spagnolo inedito del beato Pierre Favre, uno dei primi compagni di Ignazio di Loyola. Nel 2013 ho presentato questo mio antico lavoro (era la prima volta che lo incontravo) a papa Francesco, durante un’udienza del mercoledì, e mi colpì l’annuncio che Bergoglio mi fece in quel frangente: “Proprio quest’anno ho deciso di canonizzarlo”».

Ma un posto centrale di tutta la sua ricerca accademica è riservato a Blondel. Ci può spiegare il perché?

«Seppur non citato nell’enciclica Fides et ratio del 1998 (la cui gestazione sofferta è durata più di dieci anni), il suo nome riecheggia nel sottofondo di quel documento di Giovanni Paolo II. A mio parere Blondel è il filosofo del Vaticano II, in particolare per la sua convinzione che ci sia una vera compenetrazione tra realtà terrestre e grazia divina. La modernità per lui non è un avversario da combattere, ma un accesso al cristianesimo. Ora come ultimo progetto della mia vita conto di presentare nel 2019, in occasione dei 70 anni dalla morte, i suoi scritti spirituali, i Carnet intimes. Si tratta per la prima volta di un’edizione critica completa. E proprio di questo ne sono molto orgoglioso».

Che ricordi conserva degli anni del Vaticano II?

«È stato il periodo della mia giovinezza, dove ho visto da vicino il Concilio e grazie ad alcuni dei suoi protagonisti conosciuti al Collegio Germanico, (luogo a cui fui destinato da Agostino Bea), come il cardinale Döpfner e Karl Rahner, ne ho capito tanti retroscena. Il Vaticano II, strano forse a pensarsi, è stato per me la conferma di quanto avevo appreso anni prima alla scuola teologica di Lovanio da studente. Ho vissuto questi due momenti della mia esistenza come un filo rosso di continuità non interrotta. Proprio nel 1962 si laureò con me alla Gregoriana con una tesi sul “primo Heidegger” un futuro talent scout della teologia moderna: il futuro cardinale Karl Lehmann. Faceva impressione la sua capacità di leggere i libri e di capire al fondo il valore e l’essenza di una bibliografia. Un ottimo bibliofilo oltreché teologo con un eccellente memoria e capacità di collegamento; non stupisce (fui io stesso a spingerlo sulla strada della ricerca accademica) che il grande Karl Rahner, appena conclusa la laurea a Roma, lo volle come suo assistente universitario».

A incidere fortemente nella sua vita di credente e di futuro pastore è stato l’incontro ravvicinato con Hans Urs von Balthasar ed Henri de Lubac. Qual è il motivo di questa importanza?

«Entrambi sono state due persone innamorate dei Padri della Chiesa e con un ancoraggio alla tradizione, come direbbe Hans Urs. Credo che la maggiore eredità da riscoprire del teologo svizzero sia riprendere in mano i suoi saggi brevi di teologia e letteratura soprattutto tedesca. Lì vi è il miglior Balthasar rispetto a quello dei trattati teologici più complessi. Per me De Lubac è invece lo studioso più profondo del Novecento cattolico. Non mi ha sorpreso a questo proposito che Benedetto XVI, una volta interpellato dall’Istituto secolare fondato da Balthasar e da Adrienne von Speyr (la Comunità di San Giovanni) su quando aprire una causa di beatificazione sul teologo e la mistica svizzera, egli abbia detto: «Prima di loro viene il padre De Lubac». Anch’io mi sento di sposare questa tesi proprio per il suo stile di amore e di obbedienza alla Chiesa nonostante tutto».

Come vede la Chiesa nell’immediato futuro?

«Con la stessa freschezza e apertura di stile di papa Francesco in “uscita” e con le porte aperte per stare dove la gente vive. È stato spesso il richiamo ai fedeli durante il mio episcopato attivo. Una Chiesa in fondo capace di “abbattere i bastioni”, come direbbe Hans Urs von Balthasar, e di tornare a parlare nel mondo senza difendersi dal mondo».