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L'intervista . Michelucci e l'utopia concreta delle periferie

Leonardo Servadio domenica 15 marzo 2015
La reinterpretazione del patrimonio territoriale come chance per uscire dalla crisi. E in quest’ambito le periferie come risorse, non come gravame per le città. Questo è il tema fondamentale, trattato nell’ultimo numero di “La nuova città”, rivista fondata da Giovanni Michelucci nel 1945. Perché il grande progettista pistoiese, noto per opere iconiche come la Chiesa dell’Autostrada o la Stazione ferroviaria di Santa Maria Novella a Firenze, ha sempre nutrito grandissima attenzione per le parti più reiette delle città. Ne parliamo col direttore della Fondazione Michelucci, l’architetto Corrado Marcetti. «Quando nel 1982 costituì la fondazione, Michelucci stabilì che dovesse incentrarsi sui problemi cronici della città, sulle sue strutture sociali. E in tal senso ne ha diretto l’opera sino al dicembre del 1990, quando spirò due giorni prima di compiere il secolo di vita. Da allora abbiamo portato avanti questo suo impegno». In che modo? «Il legato michelucciano ci porta a muoverci secondo il principio dell’“utopia concreta”. Non è un ossimoro, ma un impegno propositivo. Ci siamo concentrati sulle parti più difficili della città: i campi dei nomadi, l’accoglienza degli immigrati e le carceri, misurandoci su casi precisi. Un esempio significativo è l’intervento compiuto al Poderaccio, campo nomadi di Firenze per i quali verso la fine degli anni 90 siamo riusciti a sviluppare un nuovo piccolo villaggio: è stata la prima esperienza di questo genere in Italia. Altri interventi simili sono stati compiuiti nella zona del Guarlone a Firenze e a Coltano nel Pisano. Sono state realizzate case, piccoli quartieri che hanno contribuito a rompere il pregiudizio verso i rom e a predisporre situazioni che hanno portato a un cambio negli stili di vita delle persone e quindi anche nelle relazioni tra questi e la città. E abbiamo accompagnato singole famiglie rom a reperire alloggi in altri contesti urbani». La casa come strumento di inserimento sociale... «Mi diceva uno dei primi rom con cui abbiamo lavorato come la sua famiglia si fosse impegnata nel sistemare l’alloggio assegnatogli, che era stato lasciato in condizioni deplorevoli dai precedenti occupanti. I condomini li guardavano con diffidenza. Allora loro presero a lasciare la porta aperta e tutti potettero vedere come imbiancavano, riparavano, arredavano. Poi cominciarono a preparare il caffè e pian piano quelli che passavano erano attirati dall’aroma e inviati a entrare». Avrete riscontrato anche casi di ostilità... «Dove abbiamo promosso i nuovi insediamenti ci sono state molte resistenze. Firme raccolte a migliaia per impedirli. Ma poi, con la prossimità tra le persone, l’ostilità ha ceduto il passo al rapporto umano. I nuovi quartieri sono stati progettati per favorire gli incontri: vi sono molti spazi pubblici, grandi androni, giardini, piazze. Gli appartamenti sono necessariamente piccoli. È qualcosa di simile al concetto di cohousing, studiato per persone con poca capacità di spesa e dove, con buona volontà, le opere di mantenimento sono condotte dagli stessi abitanti». Questi edifici sono di proprietà pubblica... «Certamente. Penso che i Comuni dovrebbero sempre mantenere molti edifici destinati alle fasce sociali deboli. Naturalmente, man mano che nelle famglie aumenta la capacità di spesa allora passano ad abitare altre case e lasciano libere quelle in precedenza affidategli. Purtroppo il patrimonio abitativo pubblico italiano è tra i più piccoli in Europa e questo rende difficile il processo di evoluzione sociale. Qui da noi l’edilizia pubblica nata nel secondo dopoguerra col cosiddetto “piano Fanfani”, non si è evoluta nel tempo per rispondere agli arrivi di immigrati, di rom o alle nuove povertà. In Paesi come l’Olanda, la Francia o la Germania le case a carattere sociale sono molto più numerose, e di qualità migliore». Che idea aveva Michelucci per le periferie? «Le considerava occasioni per riprogettare la città: insieme con gli abitanti, in particolare con i giovani, con cui si costruisce il futuro. Un concetto oggi ripreso da Renzo Piano. I centri storici sono le parti compiute, sono “pieni”; nelle periferie si può “fare spazio”, diceva Michelucci. Non desiderava che fossero concepite secondo schemi simili a quelli dei centri storici, ma che si rispondessero alle necessità specifiche di chi ci vive. Al proposito, un progetto compiuto dalla Fondazione Michelucci coi ragazzi delle scuole superiori fiorentine e chiamato “Sguardo dei giovani sulla città che cambia” ha ricevuto un premio dell’Unesco. Michelucci aveva presente la necessità di recuperare i luoghi esistenti per dar loro una nuova storia. A patire dai capannoni abbandonati, dove spesso abitano da abusivi gli immigrati». E vi siete occupati anche di carceri? «Tra Firenze e Scandicci, periferica a entrambe le città, c’è la nuova casa circondariale. Con Michelucci vi si progettò il “giardino degli incontri”. Un luogo dal carattere urbano dove i carcerati possano vedersi coi parenti e in certe circostanze anche i cittadini possano conoscere la realtà carceraria». La Fondazione svolge anche un ruolo di consulenza? «Operiamo coi Comuni e coi progettisti da questi incaricati, svolgiamo studi, analisi, formuliamo proposte. Ci siamo trovati di fronte a ipotesi di centri di accoglienza per immigrati concepiti come foresterie, e abbiamo cercato di trovare una soluzione che avesse un carattere più comunitario e urbano. A Trento ci hanno chiamati per una consulenza per favorire l’inserimento di oltre cento famiglie da poco giunte nel borgo di Gardolo. Abbiamo coinvolto tutte le associazioni presenti sul territorio in una ricerca sulla qualità abitativa necessaria propria per quel luogo. Un altro importante studio è quello compiuto sul quartiere dell’Isolotto a Firenze, mirato ad aumentarne la qualità intesa secondo parametri socialmente rilevanti, non semplicemente economici. Ora stiamo partecipando a progetti europei incentrati sul tema dell’abitare per i nuovi immigrati». La casa è strumento che aiuta a formare la cittadinanza? «Sì, lo è. Costituisce parte importante dell’identità delle persone. Chi perde il tetto subisce una crisi profonda. Abbiamo constatato che la possibilità di avere una casa porta anche le persone che rischiano la totale emarginazione, a recuperare il rapporto con la società. Evita traumi profondi, promuove l’intesa».