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Filosofia. Olga Pombo: «Pensare vuol dire allargare i confini»

Giovanni Scarafile domenica 29 maggio 2022

La filosofa Olga Pombo

«A scuola e fuori dalla scuola, in università, nelle istituzioni di ricerca e di produzione del sapere, l’interdisciplinarità corrisponde a un tentativo positivo e ottimista di sviluppo armonico e integrato della cultura umana». A parlare è Olga Pombo, già Coordinatrice del Centro di ricerca di filosofia della scienza (CFCUL) dell’Università di Lisbona, Direttrice della rivista Kairos (De Gruyter) e tra le più autorevoli voci contemporanee in materia di interdisciplinarità. Nel vivace contesto accademico lusitano, che non a caso ha ospitato proprio in questi giorni la 30a edizione delle Olimpiadi internazionali di filosofia, già nel 2013 Olga Pombo teneva a battesimo un dottorato dedicato a “Filosofia della scienza, tecnologia, arte e società” che faceva, appunto, del dialogo fra saperi una pratica virtuosa. Oggi, discutere di interdisciplinarità può perfino sembrare ridondante. In effetti, chi avrebbe mai il coraggio di opporsi dato che nei luoghi della ricerca l’aggettivo “interdisciplinare” è fra i più usati? A chiarire meglio i termini della questione ci aveva però pensato qualche anno fa Marcelo Dascal. Nel suo libro-intervista A crua palavra, il filosofo israeliano aveva infatti segnalato la presenza di un paradosso: «Si parla molto di interdisciplinarità, si creano discipline interdisciplinari (per esempio, le scienze cognitive), ma nei momenti salienti ognuno resta chiuso nella sua disciplina o afferrato ad essa come ad un ancora di salvezza. C’è – aveva concluso – una domanda di disciplinarità contraria al parlare di interdisciplinarità».

Nelle dinamiche della conoscenza, Dascal non soltanto accennava ad una lieve asincronia tra la sistole del radicamento disciplinare e la diastole della apertura interdisciplinare. Egli aveva ben intravisto il rischio che proprio nel lieve scarto tra radicamento ed apertura potesse incunearsi l’autoreferenzialità che può portare gli studiosi a rinchiudersi in mondi paralleli, incomunicanti e separati gli uni dagli altri. Non è, dunque, un’occasionale convergenza nel lavoro di esperti di discipline diverse che ci farà trovare preparati di fronte alle emergenze planetarie, ma una autentica vocazione interdisciplinare, che permetta di scardinare la logica stessa dei mondi paralleli. In tal senso, non è certo irrilevante ricordare l’esistenza di una vera e propria tassonomia dell’interdisciplinarità. Già nel 1972, infatti, alla luce di un criterio di progressiva integrazione delle epistemologie e degli strumenti operativi dei singoli saperi, si erano distinte la multidisciplinarità (MD), l’interdisciplinarità (ID) e la transdisciplinarità (TD). Tuttavia, tali specificazioni rischiano di rimanere sulla carta se non avremo il coraggio di partire dalle pratiche della loro attuazione, ponendoci in ascolto delle dinamiche, delle potenzialità, così come delle resistenze che in esse hanno luogo. Ecco perché, anche in vista del Congresso mondiale di filosofia che, organizzato dalla FISP. Fédération internationale des sociétés de philosophie, d’intesa con la Società filosofica italiana, nell’agosto del 2024 vedrà confluire alla Sapienza, Università di Roma i filosofi di tutto il mondo, può essere utile fare il punto con Olga Pombo sulla connessione tra filosofia e interdisciplinarità.

Professoressa Pombo, come possiamo definire l’interdisciplinarità?

Interdisciplinarità è la parola con cui si cerca di pensare un fenomeno decisivo della scienza contemporanea, ovvero il fatto che il progresso delle scienze, soprattutto a partire dalla seconda metà del XX secolo, ha smesso di derivare da una sempre maggiore specializzazione. Al contrario e in misura crescente, esso si basa su dispositivi euristici integrativi come il trasferimento di concetti, la convergenza di problemi, la contaminazione di ipotesi o l’irradiazione di metodi tra discipline diverse, solo per citarne alcuni. Fino ad un certo punto del loro sviluppo, le discipline hanno vissuto in un felice regime di isolamento, voltandosi le spalle l’una all’altra, ciascuna rivendicando la dignità di scienza indipendente e proclamando la propria autonomia da tutte le altre scienze. Questo ha portato ad una insospettabile ed inedita frammentazione del sapere scientifico, con conseguenze profonde in termini di pratiche, linguaggi, strutture istituzionali, ma anche di cultura e mentalità. Tuttavia, a metà del XX secolo, queste stesse discipline hanno rivelato la più sorprendente apertura e vicinanza ad altre discipline. L’emergere di nuovi tipi di scienze negli interstizi – o alla confluenza – delle discipline tradizionali è ben noto. Si pensi, ad esempio, al caso della cibernetica di Wiener negli anni ’40 o alla “galassia” delle scienze cognitive dagli anni ’70 in poi. In altre parole, è il progresso stesso della specializzazione a richiedere una articolazione interdisciplinare.

Quali sono i principali ostacoli al lavoro interdisciplinare?

Sono molti e diversi e riguardano soprattutto la resistenza opposta dalla struttura disciplinare di vecchia data delle nostre istituzioni di ricerca e di apprendimento. Si veda il caso delle scuole, ordinate come sono dall’organizzazione curriculare tradizionale, elaborata secondo i principi della segmentazione temporale, spaziale e programmatica. Si veda il caso dell’università dove, in larga misura, siamo ancora vittime di un’organizzazione dipartimentale più o meno rigida e di un’idea napoleonica e centralizzante secondo cui tutti i laureati in un determinato settore devono avere la stessa formazione, frequentare gli stessi corsi, seguire l’unico ordinamento curriculare e spetta all’università garantire che tale uniformità venga trovata e mantenuta. Si veda il caso delle strutture di ricerca dove, circondata da un’ombra istituzionale sempre più grande, la scienza si è divisa al suo interno in innumerevoli comunità, aggregati competitivi (tribù), ognuno con i suoi congressi, le sue riviste, le sue biblioteche, i suoi territori, i suoi borsisti, le sue attrezzature, i suoi laboratori e i suoi spazi istituzionali, con gli scienziati che vivono guardandosi le spalle l’un l’altro, senza sapere cosa fanno gli altri colleghi, in competizione in ciò che dovrebbe essere di tutti.

Si può dire che le nostre università facciano fatica a tenere il ritmo delle trasformazioni in atto?

Diciamo che la nostra scuola, la nostra università, le nostre strutture di ricerca si sono in gran parte disfatte nel tempo. Esse riflettono un regime crepuscolare di conoscenza caratterizzato da una crescente specializzazione, che si muove verso una fine determinata e un progresso lineare. Ma, allo stesso tempo, il nostro tempo è già un altro tempo, caratterizzato da nuove conquiste, nuove speranze e nuove illusioni. L’interdisciplinarità corrisponde ad una nuova situazione epistemologica, un movimento cognitivo che esprime la necessità di superare il regime analitico di una scienza riduzionista con un programma in grado di accedere e affrontare un livello più profondo e complesso della realtà. Questo abisso di complessità, questa vertiginosa apertura verso una realtà che non può essere ridotta al semplice, ma che richiede la capacità di considerare, mettere in relazione e “integrare” molte e diverse informazioni provenienti da luoghi, aree, siti, sfere, attività, discipline diverse, nonché nuovi metodi interdisciplinari di lavoro, apprendimento e scoperta, costituisce, a mio avviso, il fondamento ontologico dell’interdisciplinarità.

Per essere autenticamente interdisciplinari, bisogna mettere in conto una svalutazione delle proprie conoscenze?

Non è affatto così. L’interdisciplinarità non è nemica delle discipline. Non c’è alcuna contraddizione o opposizione tra le discipline e l’interdisciplinarità che, come tale, non richiede l’abbandono delle discipline o l’offuscamento dei loro confini. L’interdisciplinarità è qualcosa che esiste tra le discipline, che vive perché ci sono le discipline. A livello individuale, ogni ricercatore ha le sue conoscenze disciplinari di base. Questo è fondamentale per praticare l’interdisciplinarità. Ciò che serve, dunque, non è una svalutazione del proprio background disciplinare, della propria conoscenza, ma l’apertura ad altre discipline. È necessario essere interessati ad entrare in altri domini, essere in grado di imparare con altre procedure disciplinari, essere disponibili a scambiare esperienze, idee, congetture. Si esce dal proprio ambito disciplinare per unirsi ad altri colleghi di altre discipline, per imparare con loro, per discutere, per confrontarsi con i loro concetti, le loro ipotesi, le loro metodologie, ma allo stesso tempo si mantiene l’impegno con la propria disciplina principale. In sintesi, praticare l’interdisciplinarità non significa produrre la progressiva scomparsa delle discipline e nemmeno superare i loro confini disciplinari “rigidi e antiquati”, come pretendono alcune affermazioni postmoderne, ma essere in grado di stabilire incroci ricchi, produttivi ed euristici tra le discipline. È perché le discipline esistono che l’interdisciplinarità può attraversarle, percorrerle, lavorare insieme a loro, all’interno dei loro confini.

Quale contributo può dare l’interdisciplinarità nel rapporto tra scienza e democrazia?

L’interdisciplinarità è una caratteristica principale della società della conoscenza che già esiste e che si svilupperà in futuro. Riflette la crescente importanza dei dispositivi cognitivi nella vita di tutti noi, ma anche la sempre più forte interrelazione e integrazione di domini che eravamo abituati a pensare come chiusi e indipendenti.

In questo senso, l’interdisciplinarità corrisponde all’apertura della scienza verso problemi che non potrebbero essere affrontati da una sola scienza, poiché richiedono l’interazione di diverse discipline. Il clima, il traffico, l’ambiente, la cognizione, sono buoni esempi di problemi che una sola tradizione disciplinare non potrebbe abbracciare, cioè problemi che esistono come oggetti di indagine solo perché è possibile mettere in comune diverse prospettive interdisciplinari.

Ora, a partire dalla metà del XX secolo, molti di questi problemi non sono stati scelti dagli operatori scientifici secondo la logica interna delle loro discipline, ma sono stati generati dalla capacità di intervento di una società civile i cui membri, i cittadini ogni giorno più informati, tendono a diventare più attenti alle attività scientifiche, ai risultati, alle conseguenze, ai danni, ai pericoli (ad esempio, l’energia atomica), ma anche ai processi interdisciplinari e alle capacità di risolvere nuovi tipi di problemi urgenti. In altre parole, oggi assistiamo all’emergere di una scienza più democratica che accetta l’intervento, in quello che è sempre il proprio “dominio” chiuso di esperienza, di questi nuovi interlocutori che obbligano la scienza a cercare soluzioni integrate e interdisciplinari ai problemi concreti e complessi che propongono.

Nell’Oxford Handbook of Interdisciplinarity, Anne Balsamo e Carl Mitcham sostengono che “Nella disciplina della filosofia, coloro che si impegnano nel lavoro interdisciplinare sono spesso professionalmente emarginati”. Può spiegare perché le maggiori difficoltà nel praticare l’interdisciplinarità sembrano provenire dalla stessa filosofia?

Non sono d’accordo con questa affermazione, né so quali siano le sue reali basi. Si tratta di una semplice opinione o del risultato di una ricerca condotta tra coloro che praticano la filosofia? Al contrario, credo che la filosofia abbia una vera vocazione interdisciplinare. La filosofia non si occupa solo della propria tradizione disciplinare, della propria produzione interna. Questa è una concezione molto povera della filosofia. La filosofia è sempre rivolta verso l’esterno, sempre rivolta a ciò che esiste fuori, sempre attenta alla produzione scientifica e artistica, sempre alle prese con le problematiche reali provenienti da tutti gli ambiti della vita e dell’attività umana. Quindi, dal mio punto di vista, le grandi difficoltà nel praticare l’interdisciplinarità non vengono dalla filosofia, ma dalla mancanza di filosofia.

Il tema del Congresso Mondiale di filosofia è “La filosofia oltre i confini”. Dal suo punto di vista, potrebbe aiutare a cogliere la rilevanza di questo tema?

Curiosamente, il tema del prossimo Congresso mondiale contraddice direttamente l’affermazione dei due studiosi citati in precedenza. È molto interessante e significativo che il prossimo Congresso mondiale abbia questo titolo. È vero che l’interdisciplinarità non è stata riconosciuta dai filosofi come un concetto che meritava di essere pensato. L’interdisciplinarità sembrava essere solo un obiettivo pedagogico o una metodologia. Tuttavia, oggi, sia gli scienziati che i filosofi sanno bene che l’interdisciplinarità è una delle principali determinazioni della nostra civiltà e della nostra scienza, una realtà inevitabile per chi vuole pensare la condizione attuale della nostra conoscenza, cioè un concetto di cui la filosofia (della scienza) si deve occupare.