Agorà

IDEE. L’uomo postmoderno «imbarcato» da Pascal

Giuseppe Tanzella-Nitti lunedì 15 ottobre 2012
Il lettore che si accosta ai Pensieri di Blaise Pascal (1623-1662) non ne esce mai indenne. Il pensatore francese fa di tutto per scuotere il suo interlocutore con un’apologetica che sa riproporre le domande ultime sulla vita e sulla morte, sull’infinito e sul nulla, sulla virtù e sul peccato. Pur rivolgendosi in modo particolare ai libertini del suo tempo, il linguaggio di Pascal sa attrarre anche i filosofi e gli uomini di scienza, gli scettici e i cercatori di Dio, riflesso di una biografia davvero unica, che ci ha consegnato teoremi di geometria e formule fisiche, argomentazioni apologetiche e pagine di mistica, disegni di macchine calcolatrici e riflessioni politiche. Come è noto, le Pensées erano destinate a dar vita ad un’Apologia del cristianesimo, lavoro incompiuto che dopo la sua morte diversi autori hanno cercato di editare secondo varie ricostruzioni. Mentre siamo alla ricerca di vie per una nuova evangelizzazione capace di dirigersi alla vecchia Europa e al mondo occidentale in genere, segnato dal progressivo imporsi del materialismo e della secolarizzazione, sorge naturale chiedersi se nell’Apologia pascaliana esistano aspetti fruibili anche oggi. Gli argomenti di Pascal, che al mostrare la bruttezza e l’indecifrabilità dell’uomo senza Gesù Cristo intendono far cadere in ginocchio il libertino disimpegnato – e forse in non pochi casi ci riuscivano – sarebbero oggi efficaci nei confronti dell’uomo postmoderno, indifferente e secolarizzato? Sebbene anch’egli percepisse la secolarizzazione dei cattolici del suo tempo – almeno a giudicare dal suo opuscolo Confronto tra i cristiani dei primi tempi e quelli d’oggi (1655), nel quale lamenta che «anticamente bisognava abbandonare il mondo per essere ricevuti nella Chiesa, mentre oggi si entra nella Chiesa nello stesso tempo che nel mondo» – non vi è dubbio che la situazione degli interlocutori del pensatore francese era assai diversa da quella della società contemporanea. Possiamo ancora convincere l’uomo che abita le nostre metropoli, una volta cristiane ed oggi teatro di un diffuso edonismo, che egli venendo alla vita, come afferma Pascal nei Pensieri, è comunque «imbarcato», ed è, come tutti, «condannato a morte»? Non accade forse che il suo modo di divertirsi e di distrarsi è ormai troppo sofisticato, ed antropologicamente troppo radicata la sua dipendenza dai piaceri, dalle droghe e dagli idoli, per poterlo scuotere e svegliare con una meditazione simile a quella pascaliana? In favore dell’attualità di Pascal si potrebbe osservare che esiste una certa sintonia fra l’immagine da lui proposta di un Dio di consolazione e di misericordia, specie nei suoi passaggi più altamente mistici, e l’odierna sensibilità verso il mondo degli affetti e dei sentimenti, mai spenta anche nell’uomo disilluso e religiosamente indifferente. Tuttavia, per sperimentare la consolazione di Dio, Pascal passa e fa passare attraverso lo snodo della consapevolezza del peccato, attraverso il riconoscimento della propria «bruttezza senza Cristo». L’uomo postmoderno, al contrario, sembrerebbe non più avvezzo a cogliere il senso del peccato, incapace di respingere il nichilismo nel quale egli precipita rifiutando la grazia, perché, di fatto, questa bruttezza e questo nichilismo egli li celebra, esaltandoli e propagandandoli in modo sprezzante, quando non apertamente blasfemo.
Possono la misericordia e la consolazione di Dio fare ancora appello al cuore di un uomo siffatto? Le precedenti domande, per quanto severe sembrino, non possono essere eluse. Rimandano alla più ampia questione delle strategie pastorali che l’evangelizzazione dovrebbe oggi seguire nella società contemporanea, quella occidentale in particolare. A ben vedere, la condizione postmoderna (se così la si vuol chiamare) non si presenta mai come totale incapacità di apertura alla trascendenza, quanto piuttosto come debolezza antropologica, più o meno camuffata, una condizione la cui inconsistenza teoretica e instabilità pratica di manifestano proprio nelle contraddizioni che in essa si esprimono. L’uomo postmoderno, infatti, mostra certamente disaffezione al tema di Dio (Dio è per lui assente, piuttosto che inesistente), ma non alla sensibilità verso l’affetto e l’amore; si presenta come individualista, egoista, quasi incapace di instaurare relazioni sincere e durature, eppure ancora affascinato dagli amori che non periscono, attratto dalle gesta di donazione e di carità realizzate da altri, e lui stesso capace di generosità, sebbene estrinseca, quando emotivamente coinvolto; sperimenta una perdita di tragicità nei confronti della morte e dei contenuti che essa implica ed evoca (perché cerca di sterilizzarla e dominarla pretenziosamente con l’eutanasia), ma continua ad alimentare un desiderio di aldilà e un reale interesse alla vita-dopo-la-morte, come mostrano anche oggi molti esempi della letteratura e del cinema, proponendo narrazioni dal sapore di escatologie sostitutive. Come già Pascal, anche il cristiano del XXI secolo sa che l’atteggiamento disimpegnato ed indifferente, per quanto intensa sia la narcosi che lo provoca e lo mantiene in essere, non può protrarsi lungo l’intero arco di un’esistenza. Nelle fessure lasciate dai precedenti atteggiamenti contraddittori potranno prima o poi incunearsi esperienze nuove che facciano riflettere sul perché si continui a desiderare inconsapevolmente il bene anche quando non si vede possibile realizzarlo. Avvenimenti che riportano il soggetto al reale e che lo scuotono, nel bene e nel male, ponendolo di fronte alle realtà della morte e della vita, della sofferenza e dell’amore, continueranno sempre a risvegliare l’uomo di tutti i tempi, e talvolta anche a sconvolgerlo. Le armi di Pascal potrebbero restare inefficaci per molti anni, ma avrebbero prima o poi, anche nel contesto della post-modernità, qualche buona opportunità di tornare a ferire ad salutem. Risulta poi interessante che Pascal, in non pochi dei suoi Pensieri, agganci il suo realismo antropologico ad un preciso riferimento cosmologico che non può essere rimosso dai cambiamenti epocali. La situazione dell’essere umano sospeso fra due infiniti possiede un realismo intramontabile, sebbene possa essere percepita in modo più o meno facile a seconda di un diverso rapporto con la natura e con ciò che essa evoca. La fragilità dell’essere umano di fronte alla potenza delle forze cosmico-naturali, e al tempo stesso la straordinaria capacità di pensare il cosmo e perfino di esplorarlo fisicamente, sono esperienze perennemente disponibili a chi partecipi del respiro della vita, della fugacità e della bellezza di questo dono. È però vero che se l’apologetica dei Pensieri era diretta ad un pubblico ampio, non particolarmente attrezzato dal punto di vista intellettuale e teoretico, oggi occorre invece essere persone di certa vita intellettuale per mostrare sensibilità a quelle medesime argomentazioni. Nel clima di un contemporaneo relativismo e disimpegno morale, occorre che il soggetto sia almeno a conoscenza di cosa implichi porsi di fronte a sé stesso e al cosmo in cui ci si trova collocati, per poter accedere a quelle domande cui la dialettica pascaliana intendeva fornire una radicale risposta. Da questo punto di vista, i libertini di fine Seicento sono forse assai più vicini agli intellettuali odierni di quanto essi stessi non lo fossero agli intellettuali del loro tempo.
Molto probabilmente le riflessioni suscitate dai Pensieri non sono oggi più sufficienti ad individuare un percorso compiuto che sfoci nell’accoglienza della Rivelazione; anzi, potrebbero correre il rischio, se non affiancate da ulteriori aiuti e contenuti, di esaurirsi sul piano emotivo. Eppure, le riflessioni dello scienziato-filosofo di Clermont-Ferrand continuano a rappresentare un efficace punto di avvio, una leva, uno spazio di inserzione, mediante i quali la successiva evangelizzazione può prendere corpo. La strategia di Pascal è, in fondo, un precoce esempio di quel metodo dell’immanenza che Blondel saprà difendere in modo convincente come porta d’accesso obbligata per fare appello al cuore di un uomo ormai abituato a giudicare argomenti ed eventi con il metro della propria sensibilità personale e non (solo) più con quello del loro significato oggettivo e impersonale. La svolta del nuovo equilibrio fra soggetto e oggetto instaurato da Pascal, fra appello personale e prove oggettive, è paradigmaticamente espressa da alcuni passaggi di uno dei suoi frammenti più noti: "Il Dio dei cristiani non consiste semplicemente in un Dio autore delle verità geometriche e dell’ordine degli elementi: è la parte dei pagani e degli epicurei. Non consiste semplicemente in un Dio che esercita la propria provvidenza sulla vita e sui beni degli uomini, per donare una felice serie di anni a chi lo adora: è la parte degli Ebrei. Ma il Dio d’Abramo, il Dio di Isacco il Dio di Giacobbe, il Dio dei cristiani, è un Dio di amore e di consolazione; è un Dio che riempie l’anima e il cuore di quelli che Egli possiede; è un Dio che fa loro sentire interiormente la loro miseria, e la sua misericordia infinita; che si unisce al più profondo della loro anima, che la riempie di umiltà, di gioia, di fiducia, di amore; che li rende incapaci di altro fine che non sia Lui stesso" (Pensieri, n. 602). Pascal ha ragione. Il peso dei preamboli della fede, la correttezza teoretica del discorso filosofico su Dio, o perfino gli argomenti che mostrino la coerenza logica ed intellettuale delle verità di fede quando colte dalla coscienza credente, per quanto necessari, non sono sufficienti per la vita della grazia. Laddove, come al giorno d’oggi, venisse a mancare la consapevolezza del peccato e dunque il riconoscimento di un amore di misericordia, o i bisogni spirituali dell’uomo risultassero così offuscati da rendere più difficile la ricerca di un vero amore di consolazione, Pascal intercetterebbe nei nostri contemporanei almeno una nostalgia di Dio, mai del tutto sopita. Forse ci si dovrà rassegnare a chinarsi sull’uomo anche quando solo ferito da questo amore nostalgico, se egli non ravvisasse più nulla di cui voler chiedere perdono o non volesse rinunciare a nessun idolo con cui ancora consolarsi. Come metterà in luce due secoli dopo Blondel, e Agostino aveva già magistralmente avvertito, proprio la spasmodica e inefficace ricerca di ciò per cui il cuore non è fatto dimostra ciò per cui invece esso è stato fatto. All’evangelizzatore il compito di trasformare l’attesa in apertura e la nostalgia in desiderio efficace.