Agorà

Letteratura. Anche le parole sono migranti al seguito di popoli dispersi

Eugenio Giannetta sabato 12 marzo 2022

Profughi ghanesi in attesa di essere rimpatriati restano per ore in fila nel deserto vicino al campo di Choucha a Ras Jadir in Tunisa

Migrare è una parola che ha origine dal latino e viene così definita da Treccani: «Lasciare il luogo di origine per stanziarsi, anche solo temporaneamente, altrove». Una descrizione che non lascia molto spazio all’immaginazione, se non nella meta di destinazione: un generico altrove, punto di appiglio nel mondo. In una narrazione, quella sulla migrazione, che è molteplice e sfaccettata – ci sono migranti economici, climatici, sfollati, profughi, ognuno con una precisa declinazione – riportiamo qui qualche numero estrapolato dal XXVII Rapporto sulle migrazioni 2021 (organizzato l’11 febbraio scorso da Fondazione Ismu), per provare a dare, senza interpretazione alcuna, una piccola porzione di quello che è l’ordine numerico del fenomeno, almeno in Italia: «Gli sbarchi sulle coste italiane nel 2020 sono stati oltre 34mila, circa il triplo di quanti registrati nel 2019. Nel 2021 gli sbarchi sono quasi raddoppiati per un totale di 67.040. Nel 2020 le richieste d’asilo sono state 26.963, mentre il dato preliminare relativo al 2021 è di 56.388 domande. Nella seconda metà del 2021 si assiste a una forte crescita delle richieste di protezione di afghani: a fronte delle circa 600 domande annue nel biennio 2019-2020, le domande presentate nel 2021, anche a seguito dei ponti aerei da Kabul di fine agosto, sono 6.445 (+889%)». C’è chi arriva da terra e chi – come i protagonisti dell’ultimo libro di Younis Tawfik, iracheno di nascita e tra i maggiori esperti di medioriente e cultura araba in Italia – via mare, atto finale di un viaggio verso un altrove che è quasi sempre ricerca di salvezza: «Il mare è un mostro. È malvagio. Un polpo con tentacoli senza fine. Un’affascinante bestia mitologica con la pelle liscia e morbida come seta. Ti avvolge dolcemente, ma ti divora quando è arrabbiata. È un essere senza pietà». Ne La sponda dell’inferno (pagine 288, euro 18), in libreria per Oligo editore, Tawfik parla di immigrazione e dà voce al variegato mondo dei migranti che ogni giorno rischiano la vita nel Mediterraneo, e lo fa attraverso il racconto di cinque vite di superstiti di un naufragio al largo della Libia che si incontrano a Lampedusa. Quattro uomini e una donna da diversi paesi dell’Africa, che si sono conosciuti in un centro di detenzione e insieme rischiano di morire sotto i colpi di fame, malattie e carcerieri. Il libro di Tawfik è la testimonianza di una verità straziante, un racconto di viaggi disperati e vite perdute: «Lampedusa, la terra della salvezza e della speranza. L’isola dove si aggrappano i sopravvissuti per ritrovare la vita sfuggendo alla morte. Il sogno infranto sotto i colpi delle onde e l’ammasso di corpi martoriati sopra le rocce. La meta per i miserabili, i mansueti, che fuggono da loro stessi per riconciliarsi con il mondo ». Oltre le sponde è perciò punto di partenza, non di arrivo, e «se la morte ha un suono, esso è quello della mia anima». Poi ci sono altri migranti, in questo caso autori e non personaggi: dal versante ispanoamericano è infatti appena arrivato in libreria per le edizioni gran vía – nella collana dédalos, dedicata alla narrativa breve – Lejos. Sedici racconti dal Perù (pagine 294, euro 16), a cura di Maria Cristina Secci, professore all’Università di Cagliari. Accanto a nomi più noti ai lettori italiani, come Santiago Roncagliolo e Gabriela Wiener, gran vía qui propone una selezione di giovani scrittrici e scrittori (alcuni inediti in Italia) come María José Caro, Juan Manuel Robles e Claudia Ulloa Donoso, selezionati nel 2017 per Bogotá 39, che riunisce i 39 migliori scrittori latinoamericani sotto i 39 anni. Oltre al dato generazionale (tutti nati tra gli anni 70 e 80), ad accomunarli è la loro condizione di lontananza – e dunque lejos – dal Perù: la costante è quella di essere tutti, con rarissime eccezioni, autori migranti o figli di migranti, ma anche protagonisti della diaspora interna del proprio paese o di ritorno dopo esperienze all’estero. Il corpo, in certe narrazioni (specie quelle strumentali) sulle migrazioni, è talvolta raccontato come oggetto, quasi svuotato di significato, che semplicemente si sposta da un punto A a un punto B. Tuttavia, quelle narrazioni spesso tralasciano di raccontare come quel corpo sia invece pieno di emozioni e di una lingua, una voce e una grammatica che contribuiscono a formare un pensiero e tanto altro. Come sostiene Gabriela Wiener, una delle autrici raccolte, la scrittura è una forma di resistenza. «Due grandi temi dell’attualità peruviana – scrive Riccardo Badini, dell’Università di Cagliari, nella postfazione – si leggono in trasparenza in questa raccolta: l’epoca terribile del conflitto interno, negli anni 80 e 90, con il Perù lacerato tra le azioni terroristiche di Sendero Luminoso e la crudele risposta militare del governo peruviano, e la foresta amazzonica, rimasta invisibile per troppo tempo insieme al pensiero dei suoi abitanti». Il Perù, spiega Secci nell’introduzione, «ha una lunga storia di accoglienza di migranti provenienti da paesi in difficoltà (un esempio piuttosto recente sono i venezuelani colpiti dalla dura crisi economica), anche perché hanno appreso con l’esperienza il significato di parole come esilio, diaspora e migrazione», e la migrazione si può osservare e raccontare sì come fenomeno, per esempio numerico, ma non deve mai smettere di essere considerata anche come qualcosa di unico e umano. In questo senso la raccolta mette in evidenza come ogni esperienza migratoria equivalga anche a un’esperienza linguistica nella quale «si conquista un nuovo modo di leggere» e perciò di essere, sentire, esistere, avere una voce. La lontananza del titolo, la distanza, la condizione migrante, è perciò in continua evoluzione ed è anche nella lingua, «impaccio e difficoltà da vincere». Secondo Katya Adaui la distanza «è dentro, non è un paese» e «scrivere e leggere è sempre con l’altro», perché, infine, migrare non è rinascere, ma rinominare quel che già aveva nome, recita in una sua poesia Gabriela Wiener.