Agorà

Intervista. PARAZZOLI, scrittura fuori convenzione

Alessandro Zaccuri mercoledì 26 agosto 2015
Per consultare l’indice delle opere di Ferruccio Parazzoli bisogna andare a trovarlo nella sua casa di Milano e chiedergli il permesso di affacciarsi al balcone che domina piazzale Loreto. I luoghi dei suoi romanzi sono lì, a portata di sguardo. Non tutti i luoghi né di tutti i romanzi, perché l’immaginazione di Parazzoli – che oggi compie 80 anni – è più vasta di questa pur puntuale geografia urbana. Si estende fino alla Galilea del I secolo, attraversa la desolazione di un’Europa futuribile e arcaica, ma è sempre da Milano che parte, dalla «piazza bella piazza » su cui insiste la sua trilogia di romanzi brevi (MM Rossa, L’evacuazione e, appunto, Piazza bella piazza).  Un percorso che sfiora l’appartamentino di viale Abruzzi in cui vive la protagonista di Carolina dei miracoli, fa sosta nella parrocchia del Redentore, dove si consuma il dramma di don Ennio in Per queste strade familiari e feroci e poi avanti, di racconto in racconto, di parabola in parabola. Anche se la definizione di scrittore cattolico non gli è mai piaciuta («Non mi ci sono mai riconosciuto – precisa – né sono riuscito a giovarmene in qualche modo»), Parazzoli rimane uno degli autori italiani che con più convinzione continuano a praticare una letteratura interessata a quanto accade «dai tetti in su», per riprendere una sua espressione. Ferratissimo in teologia, lettore assiduo della Scrittura, studioso di molte tradizioni spirituali, Parazzoli è stato amico e confidente di numerose personalità della recente storia religiosa del nostro Paese, primo fra tutti il cardinale Carlo Maria Martini. «Lo conobbi all’inizio degli anni Novanta – ricorda –, mentre stavo lavorando al romanzo La nudità e la spada, nel quale immaginavo la persecuzione del cattolicesimo nell’Italia di allora. Nella trama apparivano molti personaggi reali, compresi don Luigi Giussani e Martini, che venivano fucilati insieme nel cortile dell’Arcivescovado. Chiesi udienza al cardinale per comunicargli che stavo scrivendo un libro in cui lui finiva davanti al plotone di esecuzione». E Martini come reagì? «“Faccia pure”, rispose, “tanto io non leggo narrativa”. Aggiunse che leggeva prevalentemente in tedesco, di preferenza testi di biologia, che in quel momento gli interessavano particolarmente. Con lui ho avuto un rapporto molto forte, specie dopo il suo ritorno da Gerusalemme nel 2008». Quali sono stati, oltre a Martini, i suoi preti? «Don Lorenzo Milani ebbe un ruolo significativo in un mio periodo di inquietudine. Con l’amico Franco Loi avevamo sentito parlare di questo prete che viveva abbarbicato in Toscana e siamo partiti da Milano per conoscerlo, ricevendone uno choc micidiale. La sua ospitalità ci ha disarmato, ci ha fatto subito sentire fuori posto. Noi arrivavamo con il nostro atteggiamento da intellettuali, con la testa piena di sicurezze e pregiudizi, e lui ci offriva in tutta semplicità un solo letto da dividere in una cameretta gelata, prendeva i suoi pasti con noi, ci faceva assistere alle lezioni che teneva nello stanzone adibito a scuola. Era già molto ma-lato, parlava ai ragazzi adagiato su una sdraio, il braccio immerso in un catino di acqua tiepida perché, diceva, questo gli dava un po’ di sollievo. Loi ed io sapevamo che la pittura era stata una sua grande passione e così una sera, dopo cena, provammo a parlare delle lettere di Van Gogh al fratello Theo. Ci interruppe subito: “Sono cose che non mi interessano più”, spiegò. Ormai quell’uomo era tutto in quello che faceva». Fu un incontro importante? «Senz’altro, e molto difficile da digerire. Tornammo a Milano sconcertati, è dovuto passare del tempo prima che riuscissimo a comprendere l’eroicità di quel prete che stava morendo di cancro da solo, in montagna. In seguito ho conosciuto anche la madre di don Milani, sono stato da lei a Firenze per vedere la casa in cui il figlio era morto e per farmi dare i nastri su cui erano registrate le lezioni di Barbiana. Me ne consegnò alcuni, aggiungendo che molti altri erano stati affidati a Michele Ranchetti. Per un po’ in Mondadori si discusse di ricavarne un libro, ma il materiale era incompleto, confuso. Chissà che fine ha fatto». Lei è stato in contatto anche con padre Turoldo. «L’incontro con lui è avvenuto a Udine. Nella mia tragicommedia per evitare il servizio di leva mi avevano spedito all’Ospedale militare di Udine, andai a Messa in città e mi ritrovai ad ascoltare questo predicatore incredibile, di una potenza mai sentita. Mi affacciai in sacrestia per salutarlo e così scoprii che era Turoldo. Più tardi ripresi i rapporti con lui, con padre Nazareno Fabbretti, con Luigi Santucci. Il quale, invece, la definizione di scrittore cattolico l’aveva accettata, declinandola in modo molto personale. Era un uomo che amava la vita e che, nei suoi libri, mostrava come l’ottimismo potesse nascere perfino dal dolore. Anche la Milano dei suoi romanzi era molto diversa dalla mia. Nel 1967 con Orfeo in paradiso, che aveva come fondale la Milano del primissimo Novecento, Santucci trionfò al Campiello, e fu un trionfo meritato». Tra poco uscirà da Rizzoli un suo nuovo romanzo. «Non sono sicuro che sia la definizione più appropriata. Oggi si confida molto nel romanzo, nella tecnica romanzesca. Per me, al contrario, scrivere è sempre più un andare alla deriva. Tessere che si giustappongono l’una all’altra, un puzzle che si ricompone alla perfezione, ogni pezzo si incastra nell’altro, l’immagine è nitidissima, ma la trama non c’è più, si è dissolta. Nel nuovo libro, che si intitola Infinita Commedia, ci sono diversi passaggi distinti, che potrebbero sembrare indipendenti tra di loro ma in realtà non lo sono, è sempre la stessa storia che si ripete. Moses, il barbone di corso Buenos Aires, l’incontro fra Nietzsche e Dostoevskij (non è mai avvenuto, lo so bene, ma erano in Germania negli stessi anni, avrebbero potuto conoscersi, è solo una possibilità che la storia non ha espresso), la tenda gialla che mi sono trovato davanti in rianimazione quando mi hanno operato al cuore, la caduta di san Paolo sulla via di Damasco dipinta da Bruegel… Un tema unitario c’è e per me è evidentissimo, ma i pezzi se ne vanno ciascuno per i fatti suoi, almeno finché il puzzle non è finito». Decisamente non è un romanzo convenzionale. «La scrittura non è mai convenzionale, è sempre un’altra cosa, anche rispetto al romanzo. Specialmente rispetto al romanzo».