Agorà

La riflessione. Parabole, la lingua del Regno

Giorgio Agamben martedì 10 giugno 2014
Il libro / Ecco perché raccontiamoLe letteratura è la memoria del fuoco che abbiamo perduto. E se continuiamo a raccontare, a inventare e condividere storie, è proprio perché non possiamo fare a meno del mistero da cui pure siamo stati separati. Parte da qui la riflessione che Giorgio Agamben (nella foto) scandisce nei saggi raccolti in Il fuoco e il racconto (nottetempo, pagine 152, euro 14,00), nuova tappa di un lungo percorso intellettuale nel corso del quale il pensatore ha saputo intrecciare fra loro i linguaggi di filosofia, letteratura e teologia. Una vastissima rete di rimandi testimoniata anche dal brano che anticipiamo in questa pagina, nel quale l’assunto principale di Il fuoco e il racconto viene applicato alle parabole evangeliche o, più precisamente, al nesso inscindibile tra “Parabola e Regno”. Nato a Roma nel 1942, Agamben è uno dei filosofi italiani più noti e apprezzati in ambito internazionale. A lungo docente all’Università di Venezia e visiting professor in prestigiose istituzioni, ha legato il suo nome al progetto di studi sull’Homo Sacer, avviato dall’omonimo volume del 1995. Tra le sue opere più recenti, Il mistero del male: Benedetto XVI e la fine dei tempi (Laterza), L’uomo senza contenuto (Quodlibet) e, editi da nottetempo, Il giorno del Giudizio, La Chiesa e il Regno e Pilato e Gesù.Sulle parabole (Von den Gleichnissen) è il titolo di un frammento postumo di Kafka, pubblicato da Max Brod nel 1931. Si tratta in apparenza, come il titolo sembra suggerire, di una parabola sulle parabole. Il senso del breve dialogo che si svolge fra i due interlocutori (di un terzo, che recita il primo testo, non si fa parola) è, però, precisamente il contrario, e cioè che la parabola sulle parabole non è più una parabola. «Molti si lamentano che le parole dei saggi siano sempre di nuovo soltanto parabole, ma inapplicabili per la vita quotidiana, che è la sola che abbiamo. Quando il saggio dice: “Va’ al di là”, egli non vuol dire che uno debba andare dall’altro lato, cosa che si potrebbe sempre fare, se il risultato ne valesse la pena, ma intende piuttosto un qualche al di là leggendario, qualcosa che non conosciamo, che anch’egli non potrebbe designare più da vicino [näher] e che pertanto non ci può essere d’aiuto. Tutte queste parabole vogliono dire propriamente soltanto che l’inafferrabile è inafferrabile, e questo lo sapevamo già. Ma ciò di cui ci preoccupiamo ogni giorno, sono altre cose».Un’anonima voce (einer, “uno”) suggerisce la soluzione del problema: «Perché resistete? Se seguiste le parabole, diventereste voi stessi parabola e con ciò sareste liberi dalle preoccupazioni quotidiane». L’obiezione del secondo interlocutore – «scommetto che anche questa è una parabola» – sembra, tuttavia, insuperabile: anche il diventare parabola e l’uscita dalla realtà sono, secondo ogni evidenza, soltanto una parabola, cosa che il primo interlocutore non ha difficoltà a concedere («hai vinto»). Solo a questo punto egli può chiarire il senso del suo suggerimento e rovesciare inaspettatamente la sconfitta in vittoria. Al commento scanzonato del secondo: «Ma purtroppo solo nella parabola», egli risponde senza alcuna ironia: «No, nella realtà; nella parabola hai perso».Chi si ostina a mantenere la distinzione fra realtà e parabola non ha capito il senso della parabola. Diventare parabola significa comprendere che non vi è più differenza fra la parola del Regno e il Regno, fra il discorso e la realtà. Per questo il secondo interlocutore, che insiste a credere che l’uscita dalla realtà sia ancora una parabola, non può che perdere. Per chi si fa parola e parabola – la derivazione etimologica mostra qui tutta la sua verità – il Regno è così vicino, che può essere afferrato senza “andare al di là”.Secondo la tradizione dell’ermeneutica medievale, la Scrittura ha quattro sensi (che uno degli autori dello Zohar assimila ai quattro fiumi dell’Eden e alle quattro consonanti della parola Pardes, “paradiso”): quello letterale o storico, quello allegorico, quello tropologico o morale, e quello anagogico o mistico. L’ultimo senso – com’è implicito nel suo nome (anagogia significa movimento verso l’alto) – non è un senso accanto agli altri, ma indica il passaggio a un’altra dimensione (nella formulazione di Nicola di Lyra, esso indica quo tendas, “dove devi andare”). L’equivoco qui sempre possibile è quello di trattare i quattro sensi come diversi gli uni dagli altri, ma sostanzialmente omogenei, come se, per esempio, il senso letterale si riferisse a un certo luogo o a una certa persona e quello anagogico a un altro luogo o a un’altra persona. Contro questo equivoco, che ha partorito la stolida idea di un’interpretazione infinita, Origene non si stanca di ricordare che «non bisogna pensare che gli eventi storici siano figura di altri eventi storici né che le cose corporali siano figura di altre cose corporali, ma che le cose corporali sono figura di realtà spirituali e gli eventi storici di realtà intellegibili».Il senso letterale e il senso mistico non sono due sensi separati, ma omologhi: il senso mistico non è che l’innalzarsi della lettera oltre il suo senso logico, il suo trasfigurare nella comprensione – cioè, la cessazione di ogni senso ulteriore. Capire la lettera, diventare parabola significa lasciare che in essa avvenga il Regno. La parabola parla “come Regno non fossimo”, ma proprio e soltanto in questo modo essa ci apre la porta del Regno.La parabola sulla “parola del Regno” è, allora, una parabola sulla lingua, cioè su ciò che ci resta ancora e sempre da capire – il nostro essere parlanti. Comprendere la nostra dimora nella lingua non significa conoscere il senso delle parole, con tutte le sue ambiguità e tutte le sue sottigliezze. Significa piuttosto accorgersi che ciò che nella lingua è in questione è la vicinanza del Regno, la sua somiglianza col mondo – così vicino e così somigliante che stentiamo a riconoscerlo. Poiché la sua vicinanza è un’esigenza, la sua somiglianza un’apostrofe che non possiamo lasciare inappagate. La parola ci è stata data come parabola, non per allontanarci dalle cose, ma per tenercele vicine, più vicine – come quando riconosciamo in un volto una somiglianza, come quando una mano ci sfiora. Parabolare è semplicemente parlare: Marana tha, “Signore, vieni”.