Agorà

ANTICIPAZIONE. Paolini: Korogocho, il mioVajont africano

Marco Paolini e Michela Signori martedì 8 marzo 2011
Nel 2001, assieme ad un gruppo di amici, organizzammo una manifestazione all’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano. Eravamo in periodo pre-elettorale e cercavamo un modo nostro, fuori dai patrocini degli schieramenti politici, per manifestare il nostro dissenso, gridare il nostro «basta» a tutti i «contro« e condividere la fatica di cercare dei «per» in cui credere. Fu un’auto-convocazione per un 25 aprile di resistenza che chiamammo «Appunti partigiani» e che da allora rinnova i suoi comizi d’amore ogni anno su quello stesso palcoscenico. Sul palco tutti uguali, sette minuti ciascuno, in un passaggio di testimone tra rockstar e artisti di strada, cabarettisti, attori di teatro, musicisti classici e scrittori. Mai da soli, ciascuno accompagnato da qualcun altro, come nella vita dovrebbe essere. Tutti gratis, tutti con il solo scopo di dare significato a quel 25 aprile e, magari, un pochino aiutare il prossimo, quello della Comasina, come quello di Breganze, ma anche di Nairobi, di Korogocho. Decidemmo infatti di devolvere l’intero incasso raccolto con le offerte del pubblico al progetto di padre Alex Zanotelli a Korogocho. Ci aspettavamo cinquemila persone, ne vennero più di quindicimila, c’era chi già conosceva padre Alex e chi ancora no, ma tutti capirono che una piccola offerta era un atto di giustizia prima ancora che di solidarietà. Fu una giornata lunga, faticosa e meravigliosa, e la raccolta delle offerte fu generosa. Il giorno dopo, chiamammo padre Alex per dirgli cosa avevamo fatto e lui ci disse: »Grazie per aver organizzato l’incontro, grazie di cuore a tutti.Per i soldi che avete destinato a Korogocho… sono imbarazzato. È bello sentire che tanta gente ci è vicina, ma non è altrettanto facile l’usare soldi a Korogocho quando si cerca di fare un cammino con la gente. Ecco perché sono così titubante sui soldi… lasciatemi pensare». Poi parlò con una suora inglese, sister Gill, che dal 1987 lavora a Korogocho con i malati di Aids ed assiste oggi, insieme con le comunità di base di Korogocho, oltre 950 «casi» terminali di Aids nelle loro case. Lei accettò di usare quei soldi per i malati di Aids di Korogocho. Alex ci disse che dovevamo andare a vedere, a respirare quell’aria, quella quotidiana fatica di vivere e quell’amore per la vita. Ci andammo, qualche mese più tardi, con l’amico scrittore Gianfranco Bettin che aveva condiviso con noi gli «Appunti partigiani». Era dicembre, da noi inverno, là piena estate; partimmo con enormi valigie, cariche di abiti, penne, quaderni, gomitoli di lana, tutte cose che questo mondo ha in abbondanza e che lì valgono come pietre preziose. Ricordiamo bene quel viaggio, l’incontro con Gino, un missionario laico che ha dedicato la sua vita ai poveri d’Africa, con padre Alex, con sister Gill e con la gente di Korogocho. Credevamo di essere preparati a quell’incontro, e invece… Le dimensioni, difficili da descrivere, da immaginare, difficili da credere perfino quando ce le hai sotto gli occhi e sotto i piedi: a Nairobi il 55% della popolazione, circa due milioni di persone, vive nell’1,5% del territorio municipale, e nell’80% dei casi per una baracca di lamiera paga l’affitto a gente che non vive nemmeno in baraccopoli, ma in città. Korogocho è una delle tre grandi baraccopoli che circondano la capitale, è immensa, ma ci vivono «appena» centomila persone, a Kibera sono oltre un milione… gente a cui può accadere qualsiasi cosa senza che il mondo se ne accorga, perché sulla carta non esiste. Mentre eravamo là, a Kibera scoppiò una rivolta: i proprietari delle baracche, per sfrattare un gruppo di abitanti da un appezzamento diventato edificabile, bruciarono le baracche. Per gente che non ha nulla tutto è prezioso e una baracca di lamiera rappresenta l’unico tetto possibile per la propria famiglia, così scoppiò la ribellione. Padre Alex ci impedì di andare a Kibera, disse che era troppo pericoloso, lui però con Gino ci andò, per ragionare, mediare, aiutare. Negli scontri che seguirono morirono alcune persone. Di questa, che imparammo essere la consueta modalità di sfratto per vincere la resistenza dei baraccati, l’Europa, l’Italia, forse non ne avrebbe saputo nulla se Gianfranco Bettin non avesse chiamato la redazione di alcune testate giornalistiche italiane. Non c’è nulla ai nostri occhi che ti aiuti a orientarti, non un cartello, uno slargo, un crocicchio delineato, seguiamo Alex che ci guida e ci raccomanda di fare attenzione, di non restare indietro, soprattutto di non lasciare che i bambini ci seguano: per loro il rischio di perdersi è altissimo e qui c’è gente che nei loro sorrisi non vede il candore della vita che si rinnova, della speranza in un futuro migliore, ma purtroppo solo un business. I bambini scomparsi qui raramente vengono ritrovati.La nostra amicizia con padre Alex e la nostra stima passano da questo suo operare, dal suo fare quotidiano, dal suo saper pregare oggi, in italiano, in inglese o in kikuyu, invocando «Papà», partecipando la sua fede anche con chi di fede non ne sente.