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Il caso. Non più natura incontaminata: nasce una nuova cultura del paesaggio

LEONARDO SERVADIO giovedì 14 aprile 2016
In Europa «sta crescendo una nuova cultura del paesaggio. Ben più importante delle regole che possano essere stabilite dalle autorità locali o internazionali, da essa dipende il futuro dell’ambiente e, di riflesso, quello delle persone che lo abitano». Così Albert Cortina, giurista e urbanista, nell’aprire il XII Simposio sul patrimonio immateriale dal titolo “Uno sguardo al paesaggio” che si è svolto il 9 e 10 aprile a Urueña in Spagna. Oltre che al generale interesse di studio, simposi come questo, organizzati dalla Fondazione Joaquín Díaz insieme con le amministrazioni locali, regionali e l’università di Valladolid sono legati all’attività di conservazione e riscoperta del territorio castigliano. La Fondazione è il principale centro studi sulla cultura e le tradizioni popolari in Spagna e la sua attività si è sviluppata di pari passo col recupero di Urueña, cittadina medievale interamente murata che, pur contando solo 150 abitanti, è la “prima città del libro in terra iberica” perché qui, grazie all’opera di Joaquín Díaz, è sorto il primo museo del libro, cui si affiancano i musei dello strumento musicale e delle campane. In realtà è tutta una cittadina-museo, custode del modo di vivere rurale che rimonta indietro nei secoli: vi giungono turisti per ritrovare architetture e stili di vita dimenticati. Dalle mura merlate la vista spazia sui campi pianeggianti che si perdono a vista d’occhio, verdeggianti delle messi che nel volgere di pochi mesi imbiondiranno, qua e là intervallate da filari di viti da cui si cava un vino ch’è divenuto una delle attrattive del sito. Le inarrestabili espansioni urbane che avanzano ovunque nel mondo portano a una coscienza sempre più acuta del valore di paesaggi come questo. «Gli uomini si comportano a volte come predatori – ha evidenziato Cortina – ma sono anche creativi e creatori. Oggi si sta sviluppando una nuova ruralità fondata sull’esaltazione delle specificità locali. Spesso innestate su attrattive gastronomiche, partendo dalle quali è facile riscoprire i valori insiti nel rapporto tra uomo e ambiente. Questo avviene nello spirito dell’Accordo europeo che nel 2000 ha sancito il diritto al paesaggio come veicolo di identità, richiamando alla responsabilità collettiva verso di esso». Pur in quest’epoca in cui il privato e la tecnologia sembrano far premio su tutto, è diffuso il riconoscimento che il paesaggio è un bene pubblico di valore etico, da condividere indiviso: nella sua complessità. Cortina ha snocciolato esempi di paesaggi ove è stato chiamato a intervenire per coordinare l’opera di valorizzazione. Si procede in tre passi: anzitutto una ricognizione che attiva contatti con persone e entità (amministrazioni pubbliche, imprese private, gruppi, parrocchie, ecc.) per individuare le caratteristiche salienti del luogo; un dialogo per stabilire il filo conduttore che ne rappresenti il volto (per esempio, le feste popolari); l’elaborazione di un progetto di gestione. «Il processo richiede anni ma porta ai risultati migliori, perché le decisioni non risultano calate dall’alto, bensì sono frutto di un’ampia partecipazione». Recentemente la zona del Priorat vicino a Barcellona, a conclusione di un iter di sei anni che ha coinvolto geografi, geologi, storici, agricoltori, commercianti, ha deciso di presentare la propria candidatura alla lista del patrimonio immateriale dell’Unesco: non vi sono emergenze architettoniche significative, ma campi coltivati e mulini ad acqua, vigneti e uliveti che conformano un paesaggio mediterraneo tipico, conservato nei secoli. L’iniziativa prese forma già nel 2007, quando l’amministrazione regionale propose di stabilivi un parco eolico. Dopo molteplici discussioni la popolazione decise che più importante degli introiti generati dalle pale a vento era l’identità storica. E il paesaggio non è immagine di una natura incontaminata di tipo romantico: lo ha spiegato Germán Delibes archeologo dell’università di Valladolid. «Sin dalla preistoria è l’essere umano che lo genera, con la propria attività. I più antichi insediamenti di cui si hanno tracce sulla Meseta iberica erano al centro di terre fertili e le coltivazioni si estendevano all’intorno su aree di raggio percorribile più o meno in un’ora». Almeno dal terzo millennio avanti Cristo si hanno chiari indizi dei rapporti tra villaggi e campi coltivati che permangono nei secoli. Ma ovviamene anche nel rapporto con la fauna la presenza umana determina l’ambiente e la sua evoluzione: ne ha parlato Miguel Delibes, biologo ed ecologo del paesaggio in forza al Consejo superior de investigaciones científicas (l’equivalente del nostro Cnr). «Le piante si muovono usando come veicolo gli animali che ne trasportano i semi. Ergo, le configurazioni dei boschi ricade sotto l’influsso umano, nella misura in cui questo incide, sin dall’epoca dei cacciatori e raccoglitori, sulle abitudini degli animali». Se ne trovano esempi anche ai nostri giorni: dove si stabiliscono zone a parco, tornano a diffondersi specie animali altrimenti minacciate di estinzione, quali la lince o il topo d’acqua. Non solo, «oggi la presenza dei parchi modifica il comportamento umano, riducendo la tendenza a cacciare, così uomini e animali imparano a convivere». Al punto che diverse specie selvatiche si abituano agli ambienti urbani: dagli scoiattoli ai pappagalli, dai falchi pellegrini ai merli che si uniscono ai concerti dei passeri per rallegrare le mattinate dei cittadini indolenziti dal sonno. E se sul paesaggio inteso come “oggetto” da guardare si è diffuso Juan Manuel Báez Mezquita, docente alla facoltà di Architettura di Valladolid con una carrellata di vedute pittoriche dal medio evo ai nostri giorni, José Luis Carles, musicologo dell’Università autonoma di Madrid con la sua assistente Cristina Palmese ha messo in rilievo come vi siano tante altre “dimensioni” paesistiche. Tra queste, quella sonora: altro lo stormir di fronde di un bosco, altro il gracidar di rane in uno stagno; altro lo scroscio di una cascata o il gocciolio di una fonte. «Sono tanti messaggi che, come una colonna sonora, accompagnano gli stati emotivi di chi vive il paesaggio. Incidendo sull’umore e sulla capacità di goderne lo spettacolo, spesso senza che la persona se ne renda conto, eppure sempre dicendo qualcosa all’animo».  Dunque, la campagna come paesaggio privilegiato ma, come mostrato nella relazione conclusiva, affidata a chi scrive, oggi la tendenza all’estensione degli abitati in conurbazioni immense qual è Tokyo (34 milioni di abitanti che occupano tutto il piano tra mare e il monte Fuji) porta a una mutua compenetrazione tra ambienti rurale e urbano. Già negli alveari di molte città tedesche si produce un miele migliore di quello delle campagne e l’agricoltura urbana s’è diffusa in tutta l’Africa per alimentare i milioni di persone recentemente inurbatesi. E dal Cairo a Casablanca fioriscono i tetti coltivati mentre gli orti urbani sono diffusi da Nairobi a Johannesburg. Per non dire dei pomodori cresciuti negli appartamenti di New York e delle insalate coltivate nella Stazione spaziale internazionale in orbita intorno alla terra. Così va prendendo forma Ecumenopolis, la città globale preconizzata da Constantin Doxiadis negli anni ’60. Ha piante alimentari e ornamentali ovunque, sui tetti, sulle facciate, lungo le strade, negli appartamenti. Più che la città-giardino immaginata da Ebenezer Howard alla fine del XIX secolo, è una città-campagna.