Agorà

1994. Padre Luc e gli altri: in fuga dal Ruanda e il futuro ritrovato nella solidarietà

Anna Pozzi lunedì 15 aprile 2024

Rifugiati ruandesi in fuga all'epoca del genocidio, nel 1994

«Ho passato tutto questo tempo a non raccontare. Raccontare è difficile, perché quando comincio mi sento male. Per questo la tentazione è sfuggire, parlare d’altro». Padre Luc Bucyana è un sacerdote ruandese, classe 1961, attualmente residente in Svizzera. Ci sono voluti trent’anni, perché lui, come altri membri della sua “famiglia d’elezione”, decidessero finalmente di raccontarsi. Le loro storie sono state “accolte”, prima ancora che raccolte, dal giornalista Pietro Veronese e pubblicate nel libro La Famiglia. Una storia ruandese (Edizioni e/o, pagine 208 euro 18), in occasione, appunto, di un trentennale: quello del genocidio dei tutsi del Ruanda. Cento giorni di inferno, tra aprile e luglio 1994, in cui vennero trucidate tra le 800 mila e il milione di persone in stragrande maggioranza di etnia tutsi e una piccola minoranza di hutu che si opponevano a quel famigerato disegno di cancellazione totale di un popolo. Ancora oggi, dopo tre decenni, continuano a emergere tracce di quel passato, con nuove scoperte di fosse comuni.

Un’infinità di morti. E un’infinità di sopravvissuti, che all’epoca erano bambini e sono rimasti orfani: soli, senza più nessuno e senza riferimenti. Già all’indomani dei massacri, alcuni studenti avevano iniziato a ricreare tra di loro legami familiari, non basati sul sangue, ma sul bisogno di solidarietà e condivisione. E lo stesso hanno fatto anche alcuni esuli che, per varie ragioni, hanno deciso o hanno dovuto lasciare il Paese. È il caso della Famiglia Igihozo, in Italia: un gruppo di persone che non sono parenti tra di loro, salvo in alcuni casi, ma che si sono scelte per condividere le loro storie di sopravvissuti e le loro vite, in un Paese straniero. E così hanno trovato la forza non solo per affrontare le sofferenze, ma anche per andare avanti e rimettersi in gioco, per costruire qualcosa di nuovo: nuove vite, nuove speranze, nuovi amori, una propria famiglia. Ma sempre, e ancora oggi, sapendo di poter trovare nella grande Famiglia Igihozo - che in lingua kinyarwanda significa la nenia che si canta per cullare il bambino che piange - uno spazio del cuore e degli affetti, del racconto e dell’ascolto, di comprensione fatta non solo di parole, ma anche di vissuti, sentimenti ed emozioni.

Nove di loro hanno deciso di raccontarsi in questo libro, dando una dimensione “pubblica” ai loro vissuti più intimi e personali e alle loro esperienze. Anche qui, però, si intuiscono silenzi e lacerazioni, che richiedono ancora tempo per essere affrontati. Lo stesso Pietro Veronese, che all’epoca del genocidio si trovava in Sudafrica per coprire un altro evento storico, ovvero le prime elezioni libere dopo il regime dell’apartheid, vinte da Nelson Mandela, ci ha messo diversi anni per dare forma di libro alle testimonianze raccolte. Già a ridosso del ventesimo anniversario, infatti, aveva conosciuto alcuni membri della Famiglia, con i quali aveva deciso di fondare in Italia l’associazione Ibuka, che significa “ricorda”, già presente in altri Paesi europei, con lo scopo di commemorare l’inizio del genocidio, il 7 aprile e di sostenere i sopravvissuti.

«Mi sono sentito subito molto coinvolto. Forse era anche un modo per espiare il senso di colpa per la mia “distrazione” nel 1994, per non aver capito la gravità di quello che accadeva in Ruanda mentre mi trovavo in Sudafrica», dice oggi Veronese, anche in relazione alla pubblicazione di questo libro, che non indugia troppo sulle questioni politiche e sulle enormi responsabilità anche internazionali, ma le lascia trasparire in filigrana nei vissuti di persone che a un certo punto non erano più tali: erano solo scarafaggi da calpestare: «Non è stato facile condividere le loro fatiche e le loro sofferenze, ma non mi stancherei mai di ascoltarli!», ammette.

Del resto, non è stato facile neppure per i testimoni. Padre Luc, che per ragioni anagrafiche ha vissuto anche tutto quello che ha preceduto e “preparato” il genocidio del 1994, ricorda come l’idea di raccontare lo abbia continuamente abitato, ma, dice nel libro, «ho sempre avuto la sensazione di non poter fare il passo decisivo. È come se avessi paura di ciò che mi agita». «Testimoniare, testimoniare, testimoniare sempre», sostiene invece Esther, come spinta da un’urgenza di custodire la memoria dei suoi cari massacrati - genitori, sorelle, marito e nipoti - e con loro di tutte le altre vittime: «Più porto la mia testimonianza, più tengo vivo il loro ricordo». E tuttavia aggiunge: «Ma più parlo, più il loro ricordo mi martella nella mente».

Albert, che durante il genocidio aveva avuto l’insostenibile certezza di dover essere ammazzato, è stato all’origine della Famiglia Igihozo: «Ci fa male parlare di cose che sono piene di emozioni negative, ma lo dobbiamo fare, per impedire che si ripeta l’orrore che abbiamo vissuto senza volerlo». Quanto a Honorine Mujyambere, che con Pietro Veronese presenterà il libro al Centro Pime di Milano il 18 aprile, aveva già fatto l’esperienza di una “famiglia di elezione” in Ruanda durante gli anni dell’università: «Eravamo così solidali che sembravamo davvero fratelli e sorelle!», ricorda. Non solo: «Ogni famiglia di universitari ne seguiva una di ragazzi delle scuole superiori. C’erano storie molto difficili». Gli universitari si autotassavano o facevano piccoli lavoretti per avere una cassa comune con cui far fronte alle necessità dei “familiari” o degli studenti più giovani. «Quando mi sono sposata, sono venuti tutti al mio matrimonio!».

Honorine è arrivata in Italia nel 2007: ha fatto un master e poi un dottor ato in Ingegneria delle telecomunicazioni: oggi lavora in una grande azienda di Milano, ha due figli, è presidente dalla sezione italiana e di quella europea dell’associazione Ibuka, e fa pure la catechista nella cittadina in cui abita. Lei, come molti altri membri della Famiglia Igihozo, testimoniano con le loro parole e soprattutto con la loro vita, che un “dopo” è possibile, nonostante l’orrore e il trauma che hanno vissuto: «Il dolore c’è sempre e ci sono momenti in cui lo rivivi perché è inevitabile, ma cerco di trarne qualcosa di positivo - racconta Honorine -. Quando vivi una simile tragedia, o scegli di andare avanti o accetti che il dolore che hai dentro ti schiacci. A un certo punto, specialmente quando ho avuto i miei figli, ho pensato che dovevo trovare la forza di farli crescere liberi da questa sofferenza. In questo, la fede mi ha aiutata moltissimo, anche se a un certo punto mi sentivo come un po’ “delusa” da Dio, per quello che avevo vissuto e perché mi avevano portato via la mia mamma. Ma ho sempre sentito che Gesù mi era vicino e mi dava la forza di affrontare una nuova vita».

«Queste storie hanno un grande valore testimoniale. E una grandissima attualità - aggiunge Pietro Veronese -. Non fanno solo memoria di quello che è accaduto in Ruanda trent’anni fa, ma ci mettono di fronte alla nostra indifferenza e alle nostre responsabilità anche rispetto a quello che sta succedendo oggi in molte parti del mondo».