Agorà

Faenza. Picasso, vasaio alla ricerca dell'anima del mondo

Maurizio Cecchetti venerdì 22 novembre 2019

Un'opera ceramica di Picasso esposta a Faenza: particolare dalla “Civetta con testa maschile” (1953)

«Picasso-Mediterraneo è un evento internazionale che si svolge dalla primavera del 2017 alla fine del 2019. Più di settanta istituzioni hanno immaginato una serie di mostre sull’opera “ostinatamente mediterranea” di Pablo Picasso». È la nota sintetica di un gigantesco progetto che, nella sostanza, si realizza piuttosto come un’opera di propaganda del Museo Picasso di Parigi. Un modo per fare e incamerare soldi, in definitiva. Mentre l’apporto conoscitivo resta abbastanza limitato (pur sempre con standard espositivi medio-alti). Il culmine si è avuto nel 2018 con oltre trenta mostre allestite in alcuni Paesi europei: in Francia ben 20, in Spagna 9 e in Italia 6. Ma anche nel 2019 sono state 14 le esposizioni allestite in varie città mediterranee. Da queste cifre si intuiscono anche le graduatorie degli interessi che si giocano dentro una simile invasione picassiana: lui è la gallina dalle uova d’oro, nonostante la borsa valori ponga ancora ai vertici del mercato gli “aerostati” Hirst, Koons e Cattelan. La Francia è infatti il mercato che governa i valori dell’opera di Picasso e il Museo parigino è il Sancta Sanctorum dell’artista, la miniera che alimenta un’attività espositiva in patria e all’estero davvero impressionante, e la Spagna si adegua (anche perché il mercato spagnolo è debole sulla scena internazionale), mentre l’Italia è soprattutto lo scenario composto di passato e presente sul quale l’opera del genio di Malaga agisce come un guitto, lasciando un segno di Zorro sulla fronte di ogni abbonato del turismo e dell’industria culturale.

Il tema mediterraneo non è né nuovo né particolarmente seducente. Nel 1982 Villa Medici allestì proprio una mostra su Picasso e il Mediterraneo – Le Grand Bleu, come l’artista era solito chiamare il nostro mare – il cui catalogo veniva introdotto da Jean Leymarie. E oggi, nel sud della Francia, a Tolone, si è aperta la scorsa settimana un’altra mostra legata al progetto triennale, che questa volta si concentra su Picasso e il paesaggio mediterraneo, nel cui catalogo Maria Teresa Ocaña – già direttrice del Museo d’Arte della Catalogna –, osserva che questo genere pittorico fu uno dei più precoci sperimentati dal giovanissimo Picasso quando ancora si trovava a Malaga. Lì operava il pittore Antonio Muñoz Degrain eseguendo paesaggi «di un’immaginazione e di un colore esuberante» che Picasso ammirava. Quando poi si trasferisce a Barcellona, dove il padre ha ottenuto un posto da professore alla scuola di Belle Arti, Picasso approfondisce con maggiore libertà il colore e le luci del Mediterraneo dipingendo piccole marine. Naturalmente, anche il paesaggio è un tema che segue, anzi viene domato e vinto dai successivi sviluppi del linguaggio picassiano all’interno delle fasi cubista, neoclassica, postcubista e realista, fino alle tarde declinazioni neoespressioniste. Quando ha davanti un paesaggio, Picasso cerca di metamorfizzarlo con una mente proteiforme dove la lotta con la realtà deve portare alla vittoria dello stile che l’artista sta praticando come scienza dello sguardo.

Dopo la seconda guerra mondiale Picasso si trasferisce per molto tempo nel sud della Francia e soggiorna in varie località della Costa Azzurra. È lì che comincia a sperimentare la ceramica come arte dove pittura e scultura possono ritrovarsi al di là delle comode distinzioni metodologiche degli stessi storici e critici. È forse il caso di ricordare che da studi recenti sembra emergere traccia di una versione più antica del Trattato sulla pittura di Leonardo (oggi perduta) dove il genio rinascimentale attribuiva il primato non alla pittura, come afferma nel testo oggi conosciuto, ma alla plastica di modellato dipinta. Anche Picasso – la cui natura ancipite di pittore e scultore non viene mai meno nelle sue opere – scopre che dall’arte dei vasai e dai manufatti fittili si possono cavare opere dal valore magico. Lo vediamo ora a Faenza, al Museo delle ceramiche, nella mostra Picasso. La sfida della ceramica, a cura di Salvador Haro González e Harald Thell (catalogo Silvana). Anche qui è esposta una campionatura proveniente dal Museo Picasso di Parigi, una cinquantina di opere accanto a quelle possedute dal Museo faentino che vi accosta altre ceramiche più antiche, precolombiane, medievali e rinascimentali. Può darsi che abbiano ragione i curatori della mostra quando scrivono nel catalogo che l’opera in ceramica di Picasso fu per molto tempo sottovalutata rispetto a pittura e scultura. Ma bisognerebbe anche uscire dal luogo comune riassunto nel termine “sfida” che ogni volta dipinge Picasso come un bambino capriccioso che reagisce ai limiti che gli vengono posti dimostrando che può riuscire bene in ogni cosa si proponga di fare. In realtà, a guidarlo verso lande sconosciute è piuttosto la sua esorbitante vitalità interiore. Così è per la ceramica, che cominciò a sperimentare a Vallauris, poco distante da Antibes, altro luogo ispiratore del Picasso mediterraneo. In entrambe le località vi sogno musei picassiani che conservano testimonianze notevoli del suo lavoro negli anni fra i Quaranta e la fine dei Sessanta. La ceramica – tecnica nella quale Picasso ha realizzato migliaia di opere – è davvero il momento dove l’immaginazione picassiana dimostra che non c’è forma o materia dove il suo tocco non resusciti un’anima prigioniera nella materia. Un mattone scheggiato, un “vaso” afflosciato in sede di cottura, un frammento di pignatta, ma anche un piatto, una piastrella, una brocca, o qualsiasi altra forma plasmata nell’argilla diventa sotto le sue mani e i suoi occhi “opera”, cioè riporta il manufatto ad antichissimi significati artistici, quando anche le stesse suppellettili cadevano dentro una ritualità sacra. Qualcosa del genere accade nell’arte tribale, e non per caso Picasso fu uno dei più avidi accumulatori di quelle immagini.

È questo che l’artista ci dice nella ceramica: egli è un taumaturgo, è colui che governa le forze del fascinans e del tremendum, perché thauma è meraviglia, ma anche timore per qualcosa che viene alla luce da regioni che vanno oltre o si trovano sopra la nostra comprensione del mondo. In questo senso, il segno dipinto sul vaso o sull’anfora, sul boccale come su un piatto, è una sorta di transustanziazione che riafferma i valore magico del gesto umano come anche della parola (magia universalis, non pratica da ciarlatani, ma viatico a una realtà dove il mondo non si esaurisce nelle sue apparenze, anzi, esse sono soltanto il verso di una profondità che palpita di energie e forze che spesso non si rivelano o lo fanno soltanto a chi è capace di coglierle e incanalarne in una esperienza di vita). La ceramica di Picasso è un ex voto alla vita, alla forza che si sprigiona mentre il tornio compie i suoi cerchi. L’ex voto di Dioniso- bambino. E non è strano che l’artista riveli l’interesse per la ceramica delle antiche civiltà, culture dove mito e arte si sposano con naturalezza. Ovviamente, in questa piccola mostra (ma soprattutto se si va a Vallauris e in altri luoghi francesi dove sono conservate opere ancor più importanti di quelle esposte a Faenza), si vedrà che Picasso non pensa come un vasaio di suppellettili, ma come un artista che vuole cavare dalla materia quella stessa idea che lo spingerebbe ad agire sulla tela o sul muro con la pittura o ad articolare forme tridimensionali per la fusione o per l’assemblaggio, come nella poetica dell’objet trouvé. Picasso, come Matisse, porta alla massima tensione la dialettica fra le due arti sorelle, pittura e scultura, ponendo il sigillo a una storia che era cominciata due secoli prima: quella che trova i maggiori innovatori della scultura in alcuni sublimi pittori, da Géricault, a Moreau, Degas, Derain ecc. E anche Picasso nella ceramica vuole ritrovare questo connubio delle arti.