Agorà

In scena. Orsini invoca pietà per i carcerati

Angela Calvini venerdì 9 maggio 2014
Un inno alla pietà verso i peccatori, una richiesta di autentica reden­zione, un pianto sull’uomo che in carcere ha dimen­ticato Dio. La ballata del carce­re di Reading di Oscar Wilde è u­no spettacolo che Umberto Or­sini, il regista Elio De Capitani e la musicista Giovanna Marini concepirono nel 2005 e che ora, dopo un po’ di anni, hanno ri­tenuto necessario riportare in scena al Tetro dell’Elfo di Mila­no. Perché quando in tv si a­scoltano i raccapriccianti detta­gli delle ultime iniezioni letali 'malriuscite' nelle carceri degli Uniti, quando più di 200 ragaz­ze nigeriane restano ostaggio di crudeli aguzzini e quando dalle nostre carceri sovraffollate arri­vano ogni giorno grida inascol­tate, beh, allora è giunto il mo­mento di rispolverare le parole asciutte e sincere del poemetto magnificamente cesellato da O­scar Wilde nel 1898 dopo la de­vastante esperienza del carcere. Ed è quello che ha voluto fare la Compagnia Umberto Orsini che produce lo spettacolo. Nel 1895 Oscar Wilde, in segui­to a una causa per diffamazione da lui intentata al Duca di Quee­sberry, fu a sua volta accusato di comportamento contrario alla morale pubblica e condannato a due anni da scontare nella pri­gione di Reading. Quello che vi­de e che visse, nelle terribili pri­gioni di età vittoriana, si tradus­se in quest’opera che prende spunto dalla condanna all’im­piccagione, circa un secolo pri­ma, di un giovane ufficiale reo di avere ucciso la propria amata.  La prima a entrare su una scena scarna e buia, dove campeggia­no solo alcune sedie e due tavo­li di legno, è Giovanna Marini, etnologa e musicista, che tiene una piccola lezione: a lei il com­pito di tradurre in musica la poesia di Wilde, cantando il te­sto originale in inglese, alterna­to in un elegante gioco teatrale con la lettura in italiano di Orsi­ni (che con De Capitani firma a­dattamento e traduzione). E il magnifico attore 80enne ci con­duce con naturalezza per mano, con una voce che parla dritto al cuore, attraverso i tre passaggi fon­damentali dell’o­pera. Il primo è l’orrore per la pe­na di morte, per l’uomo che ucci­de un altro uomo, anche se assassi­no. La descrizio­ne dettagliata delle ultime ore del condannato, l’algido rituale della sua uccisione, si riflette nell’attesa spasmodica e sbi­gottita dei suoi compagni, «bar­che che si incrociano nella tem­pesta ». Ed ecco il secondo pun­to, la solitudine e la disperazio­ne degli uomini chiusi in carce­re, privati della loro dignità di uomini e della luce non solo del sole, ma anche di Dio. Un Dio che irrompe fisicamente in sce­na. Nel momen­to dell’impicca­gione del con­dannato, a pren­dere il suo posto è un crocifisso del ’700, mentre la Marini intona uno straziante  De profundis della tradizione regio­nale italiana.  Ma non c’è tem­po per la pietà, il canto viene spezzato dal cini­smo e dall’indifferenza di chi 'sta fuori'. Ed è allora, nel terzo movimento della ballata, che le parole volano più alte, alla ri­cerca aperta del supporto di no­stro Signore, della sua reden­zione, di «quella Croce dono che Cristo ci ha lasciato» dice Wilde accusando le rigidità della giu­stizia umana. Un dilemma, cer­to, quello tra giusta pena e per­dono. Temi forti, che scorrono veloci, fra il fluire musicale di chitarra e voce e un dire profon­do e commosso, scevro da com­piacimenti mattatoriali, che fanno trattenere il fiato in un’o­ra di spettacolo. Alla fine, l’ap­plauso liberatorio, occhi lucidi, e, si spera uno sguardo diverso verso il prossimo.