Agorà

Intervista. Anna Von Hausswolff: «Il mio organo suona il rock»

ANDREA PEDRINELLI domenica 6 marzo 2016
«Spero che il mio disco serva a spingere chi di dovere a investire sul grande patrimonio musicale che sono gli organi a canne. I politici dovrebbero fare anche cultura, ovvero spendere risorse per non disperdere potenzialità artistiche immense: mi pare invece che siano troppi, gli organi che via via diventano inutilizzabili in giro per l’Europa. E ciò è molto triste». Come queste parole dimostrano, non ci sono solo coraggio e capacità di provare a portare il rock (e la musica contemporanea tout-court) verso nuove frontiere, nel lavoro della 29enne musicista svedese Anna Von Hausswolff: un’artista che nel maestoso album The miraculous (il suo quarto) è riuscita a sfiorare l’hard rock e fare cosciente e intelligente avanguardia usando uno degli strumenti più tradizionali e antichi della storia, appunto un organo a canne; andando peraltro, così, ben oltre certe atmosfere plumbee e limitanti presenti nei suoi primi dischi. Per la precisione Anna nel cd ha usato l’organo colossale della sua Pitea, cittadina a Nord della Svezia, che di canne ne ha ben novemila: e nell’album si odono suoni strepitosi e profondi che da tempo abbiamo purtroppo dimenticato, o quantomeno relegato al sapere di pochi intimi. E lei, va rimarcato, non usa solo l’appeal della grandiosità del suono dell’organo, per unirlo a una ricerca vocale e rock molto intrigante, a tratti evocativa dell’anima a tratti inquietante per i chiaroscuri che sottolinea del reale: vi si cimenta pure nei pianissimi, lo studia ottava per ottava, insomma fa ricerca al mille per mille non solo – semplificando – sostituendolo alla chitarra elettrica a mo’ di solista del rock, ma facendo capire quanto di diverso e spesso di migliore certi strumenti sottovalutati di ieri possano apportare anche ai percorsi più frequentati dell’oggi. In The miraculous la voce si affaccia dopo otto minuti di scrittura quasi classica, temi antichi si intrecciano coi suoni duri della contemporaneità, canzoni di sorprendente presa si alternano a strumentali composti di più temi e capaci di passare dal piano al forte evitando, pur dentro un virtuosismo evidente, ridondanze e sfoggi di bravura fine a se stessa. L’unico peccato è che l’organo di Pitea non segua Anna Von Hausswolff, per motivi ovvi, anche in tour: specie ora che lei approda in Italia per suonare martedì a Padova, il 9 a Roma e l’11 a Milano, nel primo tour della sua vita da noi. Ma gli organi che Anna troverà in loco e sapienti sintetizzatori renderanno giustizia all’opera ugualmente, crediamo: stante la profondità del suo approccio alla musica. Come è arrivata a pensare rock su un organo a canne? «È uno strumento che conosco da piccola, da quando cantavo nei cori in chiesa. Però l’idea di comporvi nacque quattro anni orsono, quando mi trovai in Danimarca senza pianoforte: iniziai a comporre su un sintetizzatore ma molti suoi suoni non mi piacevano, eccetto quello dell’organo. Lì iniziai a pensare che dovevo conoscere e suonare il vero organo a canne». Quanto pesa la storia dello strumento nel suo lavoro? «Ce n’è tanta. Ho avuto una formazione classica, vocalmente e non solo, e sono affascinata dalla storia della chiesa e dell’organo come strumento anche spirituale, che unisce le persone fisicamente e nell’anima. Siccome poi credo nella musica e nella sua capacità di rinnovarci, e mi piace cantare temi universali che possano avvicinare persone diverse, spero che affrontare l’organo con un nuovo approccio possa far capire quanto conti il passato per portarci davvero verso il futuro, tutti insieme». A quali compositori di ieri e oggi si ispira? «Soprattutto Ligeti, Welmers e Philip Glass: i quali, tutti, hanno composto anche per l’organo. Ma pure nel rock c’è il cosiddetto “ drone metal”, di gente come gli Earth, che si basa su note tenute a lungo e ad alto volume, potenzialità che l’organo fa esplorare». Però rispetto a quello stile, opprimente se non funereo, lei mette molta spiritualità nel suo disco… «Non so quanto sia dipeso dall’organo: però è vero che The miraculous è un disco spirituale in più modi. Parla del potere dell’immaginazione, apre al mistero del vivere, spero possa portare speranza anche nel dubbio e nella disperazione e aprire cuore e mente a ciò che ci circonda. Oltre la linea sottile e indistinta che separa fantasia e spiritualità». Tecnicamente qual è stata la maggiore difficoltà? «Imparare tutti i registri e padroneggiare tutte le ottave. Ci sono così tante possibilità che il trucco per arrivare a un suono bello è scegliere le corrette combinazioni dei registri. Prima di un unico concerto su un vero organo, servono quattro ore di prove!». A proposito, cosa si perde ascoltandola senza l’organo della sua Pitea? «Il fatto è che è impossibile eseguire live questo cd davvero: però usando organi che trovo in loco oppure gli stessi sintetizzatori, intanto interagisco bene con la band, due chitarre, batteria e tastiere, dando pure più organicità alla nostra fragranza ruvida che amo molto, e alla fine creo un suono ulteriormente diverso, un’unicità ulteriore a quella dello stesso cd. Per me creare in questo ambito sonoro è comunque speciale, l’organo mi spinge pure a usare la voce in modo più libero: dà molto a chi canta non per mestiere ma perché sente nello strumento un compagno di viaggio dell’anima. Dona anche peso diverso alle parole, cantarle con l’organo e non alla chitarra. E la gente ai live del cd prova sempre emozioni estreme: anzi, se non ne ha paura sperimenta un sentimento simile all’amore. Non mi stancherò di proporre l’organo nella mia musica, se accadrà sarà una pecca mia e non dello strumento». Quindi l’organo è uno strumento ancora contemporaneo? «Assolutamente. Anzi, c’è anche quasi la moda, oggi, di suonarlo. Bisogna però restaurare il patrimonio antico, non lasciarlo andare in rovina nelle chiese. Spero che qualcuno lo ascolti, questo appello».