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Archeologia. Riemerge dal deserto la vita a Shahr-i Sokhta, la Pompei d'Oriente

Redazione Agorà martedì 23 febbraio 2021

Le rovine della città di Sharh-i-Sotka, in Iran

È chiamata la Pompei d'Oriente, ma a distruggerla e insieme conservarla non fu un vulcano ma le sabbie del deserto salato di Lut. Shahr-i Sokhta, nelle alture del Baluchistan, in Iran, è un fermoimmagine della storia.

Il sito è oggetto di un Progetto archeologico multidisciplinare internazionale avviato nel 2016 dal dipartimento di Beni Culturali dell'Università del Salento che lo finanzia con il ministero degli Affari Esteri ed enti privati. La missione lavora congiuntamente Mansur Sajjadi per l'Iranian Center for Archaeological Research (che a Shahr-i Sokhta scavano dal 1997). Enrico Ascalone, direttore scientifico del progetto ha raccontato raccolto nel volume "Scavi e ricerche a Shahr-i Sokhta", che sarà presentato domani all'Università del Salento, una serie di nuove scoperte.

Nata intorno alla seconda metà del quarto millennio a.C. nell'area del Sistan, non lontano dai confini con Pakistan e Afghanistan, collassata intorno al secondo millenio a.C. per cause ancora sconosciute e nella lista Unesco per il suo "valore universale", Shahr-i Sokhta era un fiorente centro di commercio e agricoltura, posto tra quattro grandi civiltà fluviali: Oxus, Indo, Tigri-Eufrate e Halil.

«La nostra idea - ha raccontato in anteprima Ascalone all'Ansa - è che fosse una società strutturalmente eterarchica e non gerarchica. Diversi gruppi tribali coesistevano in pace, senza predominio uno sull'altro. Lo dimostrano le tipologie tombali e l'assenza di mura difensive, segno che non avevano apparato militare».

Le concrezioni saline, poi, hanno sigillato reperti e strutture, restituendo agli archeologi interi spaccati di vita. «Su una superficie di 300 ettari, ne abbiamo scavato appena il 5% - dice ancora Ascalone - ma sappiamo che una delle attività più remunerative era il commercio di turchesi e bellissimi lapislazzuli. Gli edifici erano alti anche due metri, arricchiti di decorazioni parietali che, però, non rappresentavano figure, ma motivi geometrici. Lo stesso per giare, porte o sigilli: nessuna divinità, probabilmente perché senza un'elite al comando non c'era neanche bisogno di veicolare messaggi di propaganda. Di certo, amavano il lusso: ricoprivano i pavimenti con stuoie e usavano molte perle».

Le ultime campagne di scavo hanno segnato due svolte. La prima, la datazione dello stesso centro, che gli esami sul carbone delle fornaci e delle cucine anticipano di 300 anni. Gli archeologi hanno trovato moltissime "proto-tavolette": «Sono rettangoli in argilla di 10 centimetri per 3 - spiega l'archeologo - Rudimentali, ma con annotazioni numeriche con linee e punti. Le abbiamo trovate diffusamente, anche in casa, e testimoniano una certa organizzazione sociale e amministrativa, oltre a una consuetudine ad annotare entrate e uscite. C'è anche un piccolo "metrino", un righello in argilla con linee distanti 1,1 centimetri. Sarà oggetto di studio, ma potrebbe essere stata la loro unità di misura, perché tutti i mattoni sono di misure multiple. Siamo nell'età del bronzo iraniano e questi rinvenimenti dimostrano l'inizio di un processo di urbanizzazione, che, secondo me, non si è compiuto proprio perché non esisteva un'elite. E perché non ci fu tempo».

Perché "morì" Shahr-i Sokhta? "È il grande mistero da sciogliere ora - risponde Ascalone - Non ci fu un episodio scatenante come l'eruzione del Vesuvio. Il collasso, però, avvenne in pochi decenni». Per ora le analisi paleo-botaniche puntano l'indice sul clima. «Le variazioni dei monsoni avrebbero provocato ampie aree di siccità e queste una crisi commerciale ed economica».