Agorà

Intervista. Nooteboom, la parola e lo sguardo

ALESSANDRO ZACCURI venerdì 9 settembre 2016

Cees Nooteboom è un uomo gentile ed elegante, ma è meglio non dirgli che cosa dovrebbe fare. «Ogni tanto – racconta – qualcuno mi suggerisce di scrivere in inglese anziché in olandese. Avrei un pubblico più vasto, insistono, e le traduzioni sarebbero più semplici. Non riescono a capire che la lingua è come uno strumento musicale. Quando adopero l’olandese è come se mi sedessi alla tastiera di un organo: ho a disposizione un gamma pressoché infinta di registri, che mi permettono di variare continuamente il suono. Scrivere in inglese sarebbe come imbracciare una chitarra. Nulla contro le chitarre, beninteso. Ma preferisco l’organo ».

Nato all’Aja nel 1933, Nooteboom è un autore molto conosciuto in Italia, principalmente per merito di Iperborea, che dagli anni ’90 ha iniziato a proporre la sua produzione romanzesca ( Il canto dell’essere e dell’apparire, Philip e gli altri, Rituali e molti altri), alla quale si sono affiancati di recente libri al confine tra il saggio e il diario, come il magnifico Tumbas, dedicato alle sepolture dei grandi del passato. Poeta oltre che prosatore, Nooteboom ha appena vinto il premio Lerici Pea alla carriera, che gli verrà consegnato domenica.

Oggi è al Festivaletteratura di Mantova per un paio di incontri – alle 11,15 a Palazzo Ducale e alle 17,30 presso la chiesa di San Barnaba – che prendono spunto dalla pubblicazione di Luce ovunque (Einaudi, traduzione di Fulvio Ferrari, pp. 210, euro 14,50): un’antologia personale che ricapitola, ordinandoli a ritroso, versi scritti tra il 1964 e il 2012. Molte poesie, come accade anche nei saggi e nei romanzi, nascono dal dialogo con i classici di ogni tempo, da Lucrezio al nostro Ungaretti. «Sono un autore contemporaneo – dice di sé –, ma prima o poi non mi dispiacerebbe essere considerato un classico. Non è così per tutti. Uno scrittore come Witold Gombrowicz, caratterizzato dalla poetica dell’incompiuto, non sopporterebbe l’idea di essere consegnato alle biblioteche. Leopardi è entrato fra i classici abbastanza presto, Joyce invece non è ancora pronto, è come se la sua opera continuasse a germogliare ogni volta che la leggiamo». Lei è anche un grande conoscitore di arti figurative. «Di sicuro non sono un esperto. Ammiro il lavoro degli specialisti, ricorro con estremo interesse alle loro ricerche, ma il mio atteggiamento è diverso dal loro. A interessarmi sono semmai le dinamiche della visione, l’esperienza del vedere. Sarà per questo che in Germania mi chiamano der Augenmensch, 'l’uomo dello sguardo'».

È una questione di attenzione?«Anche, ma non solo. Di recente ho scritto un libro su Hieronymus Bosch (in Italia lo pubblicherà Jaca Book, ndr), concentrandomi sul Carro di fieno, un dipinto che avevo visto a Madrid negli anni Cinquanta. Grazie all’ospitalità del Prado mi sono ritrovato da solo, a museo chiuso, davanti a quel capolavoro. E mi sono reso conto che, in oltre mezzo secolo, l’oggetto non era cambiato, ma ero cambiato io, il mio sguardo si era modificato lungo direttrici che non ero in grado di ricostruire. Ha presente il detto di Eraclito sul fiume?».

«Non ci si bagna due volte nella stessa acqua ». «Sì, è proprio così. E non importa se nel frattempo quel dipinto è rimasto identico almeno in apparenza. Su Bosch gravavano sospetti di eresia, eppure Filippo II, re cattolicissimo, volle portare all’Escorial le sue opere, compreso Il carro di fieno. Questo significa che lo guardava in un modo che non contraddiceva gli insegnamenti della Chiesa, non crede? Ho cercato di ricostruire quello sguardo e insieme di tenere conto, in qualche modo, dei milioni e milioni di sguardi che nei secoli si sono posati su quel trittico. Il turista che osserva per la prima volta il dipinto con l’audioguida alle orecchie non fa altro che allungare un catalogo di sguardi che risalgono a prima delle guerre mondiali, a prima della Rivoluzione francese…». 

Anche questo ha a che vedere con il linguaggio, non trova?  «Il linguaggio è il risultato di una combinazione e ricombinazione di immagini e parole, con effetti spesso sorprendenti, specie quando si passa da una lingua all’altra. Ho iniziato a viaggiare quando ero molto giovane e molto povero, spostandomi per mezza Europa grazie all’autostop. Un giorno mi trovavo in Italia e avevo assoluto bisogno di mangiare qualcosa. Sono entrato in un bar e, mescolando il poco italiano che conoscevo alle mie nozioni di francese, me ne sono uscito con un “Sono mol- to famoso” che all’inizio ha lasciato interdetto il proprietario. In un modo o nell’altro, però, le parole sono entrate in circolo e qualcosa ho rimediato».

Vuol dire che una lingua può essere ingannevole? «Tutta la realtà è ingannevole, e questo sfida la nostra intelligenza. Nel caso della lingua, però, a essere chiamata in causa è la capacità di osservazione, la disponibilità a cogliere intonazioni e sfumature. E poi non dimentichiamo che la lingua si consegna volentieri a un buon imitatore».

In che senso? «Prenda il caso di Proust, imitatore eccellente. Non c’è pagina della Recherche nella quale ciascun personaggio non si esprima con una voce riconoscibile. Succede per le figure che sono più care all’autore, ma anche per quelle che considera indubbiamente antipatiche. Imitare richiede un alto grado di attenzione, ma più in profondità è una dimostrazione di rispetto, un atto d’amore nei confronti della realtà».

Nella sua vita lei ha viaggiato molto, anche nel mondo islamico. «Ogni volta che si affronta il tema dell’islam ci si scontra con una serie di paradossi. Da un lato in Occidente si conosce molto poco la realtà musulmana: la distinzione fra sciiti e sunniti è metodicamente ignorata, per esempio, nonostante non sia meno importante della divisione tra cattolici e protestanti nell’Europa del Cinque e Seicento. Sull’altro versante, l’islam sconta la mancanza di un’autorità religiosa centrale, alla quale si aggiunge un grave scompenso temporale. Un orizzonte concettuale formatosi nel Medioevo è attraversato dagli strumenti della postmodernità digitale. Non c’è sincronia tra i due aspetti, questo è il dramma».

La definiscono uno scrittore nomade. «Forse non è il termine esatto. Un nomade si muove da un posto all’altro portando tutto con sé, non ha una casa a cui tornare. Io viaggio molto, è vero, ma al contrario dei nomadi ho una casa e mi piace tornarci. Semmai, quando devo stare via per molto tempo, chiedo a mia moglie di accompagnarmi».