Agorà

Il personaggio. «Ora non canto, scrivo», Pacifico racconta i suoi “emigranti”

Massimo Iondini venerdì 22 aprile 2022

Il cantautore Pacifico, nome d’arte di Gino De Crescenzo.

Una saga familiare. Quella dei “barbari” che anziché il greco antico non parlavano il “nordico” meneghino: i Campanici, la grande famiglia di Gino De Crescenzo. Li chiama così il cantautore milanese Pacifico, i tanti protagonisti di Io e la mia famiglia di barbari (La Nave di Teseo, pagine 176, euro 18,00), intensa saga raccontata, a partire dai suoi genitori Guido e Pia, nel suo nuovo romanzo. E' la terza volta in carriera che Pacifico (nome d'arte di Gino De Crescenzo) affianca alla missione compositiva cantautorale quella di scrittore, dopo il romanzo Ti ho dato un bacio mentre dormivi e Le mosche.

La scrittura di Pacifico è fulminea e poetica nel contempo, è essenziale e immaginifica, asciutta e insieme pittorica. Un bene per il lettore che di fronte a un racconto “di famiglia” potrebbe correre il rischio di dover affrontare ridondanti e nient’affatto epiche narrazioni. Qui, tra umorismo e commozione, c’è la paradigmatica storia dell’emigrazione a Milano (Pacifico è poi “emigrato” addirittura a Parigi, dove vive con la compagna e il loro figlio Thomas) della sua “stramba” famiglia che diventa una sorta di idealtipico affresco della storia stessa d’Italia del dopoguerra e non solo, sin dalla bellissima copertina: uno scatto realizzato intorno agli anni ’50 dal grande interprete della fotografia contemporanea, il 95enne Nino Migliori.

Pacifico, una restitutiva operazione verità?

Nella convocazione che ho fatto di tutte le persone che popolano il libro alcune sono venute fuori abbastanza fedeli all’originale, altre un po’ trasformate. Però tutti questi ricordi riaffiorati è come se mi avessero chiesto di trasferirli sulla pagina bianca in maniera lieve, nonostante ci siano state scene madri come in tutte le famiglie.

Come è riuscito a non cedere alla tentazione di affezionarsi così tanto alla saga dal farne un racconto fiume?

Forse ha prevalso in me la essenzialità del cantautore, di chi compone testi per le canzoni. Ma anche la mia innata tendenza a sforbiciare, ad andare all’osso. Ammesso che uno abbia una grandiosità di scrittura alla Victor Hugo, credo che la regola aurea di chi scrive sia quella di andare all’essenziale. Così a me capita che ogni volta che taglio e sfrondo torno poi sul relativo capitolo e non mi pento mai di avere tolto. Più asciugo, più il tutto diventa fluido. Scrivere canzoni è appunto un addestramento continuo: da sensazioni e pensieri al massimo devi far emergere venti righe di testo.

Cosa rende meritevole di narrazione una storia familiare di per sé non necessariamente avventurosa?

Lo sguardo di chi racconta. E il fatto che l’eroismo è più che altro quello del quotidiano. Delle famiglie che lottano ogni giorno per mangiare, per avere il riscaldamento, per garantire l’istruzione ai figli. Ciò che ho scritto è un misto tra romanzo ed evocazione fedele. Ho anche cercato di ampliarlo, mi sarebbe piaciuto farne una sorta di autentica saga, ma mi sarebbe sembrato tutto un po’ artificioso, una sorta di tradimento della realtà dei fatti. Quando in fase di scrittura raccontavo ad alcuni amici di questa mia ritrosia ad arricchire la narrazione in modo magari un po’ romanzesco, qualcuno si proponeva di raccontarmi cose della propria famiglia da inserire nel libro. Situazioni anche molto interessanti e particolari. Ma non era certo di questo che avevo bisogno. È la fedeltà a se stessi e ai protagonisti ciò che conta. Ma quello della fiction è un dibattito molto aperto e più che mai attuale.

Tema che riguarda anche la letteratura, oltre che film e serie televisive?

Sì, è un’epoca in cui a scrivere sono in tanti, si potrebbe dire quasi tutti, anche solo per la durata di un post. C’è un grandissimo problema di verità e ormai persino la flagranza viene messa in discussione. Video e immagini, che pure hanno una certa palese oggettività, dividono ormai sempre più il pubblico. Siamo assediati e ossessionati dalle cosiddette fake.

I suoi genitori sono i grandi protagonisti del libro, le loro umili origini dominano la prima parte. E quella continua tensione al riscatto sociale...

È il sentimento sottotraccia più commovente del libro, è il motore che mi ha spinto a scriverlo. Ancora adesso quando da Parigi torno a Milano vado a trovare mio padre al cimitero di Corsico e abbasso di due dita il finestrino per fare uscire una mia canzoni da fargli giungere. Piccole potenti corrispondenze immaginarie. La musica del resto è entrata nella mia vita proprio grazie ai miei genitori.

La volevano artista?

Macché, mia madre mi sognava dottore in non si sa cosa. Eppure fece entrare in casa il pianoforte grazie a numerose cambiali, immaginando che di sera, con qualche ospite in soggiorno, mi mettessi a suonare Chopin o chi altro. Così arrivò il “cavallo di Troia” in sala, pianoforte che ho ancora nella mia casa milanese.

E papà Guido, che se la prendeva con l’ancestrale condanna a essere un umile lavoratore, che diceva?

Mio padre lo vide entrare preoccupatissimo perché non navigavamo certo nell’oro, ma poi ci mise del suo comprandomi a sua volta la chitarra più cara del negozio. Questo loro darmi gli strumenti, timorosamente, per riscrivere una vita diversa da quella a cui ero destinato è stato il dono in più che mi hanno fatto. Quando mi aiutarono, con grande sacrificio, ad avviarmi alla musica non avevano idea di quello che sarebbe stato e quindi quel loro appoggio incondizionato aveva un valore immenso. Io non ero mica Gianni Morandi che aveva sfondato a 16 anni... Eppure mi hanno dato gli strumenti per inseguire un’utopia. Poi ho trovato la mia strada a 38 anni, tardissimo, quando loro ormai avevano perso ogni speranza.

Oltretutto i suoi genitori non avevano nemmeno contezza di come funzionasse il mondo della musica e dell’aleatorietà insita in questo tipo di carriera...

Fosse arrivato un successo improvviso e clamoroso a 17-18 anni come, in tempi nostri, è successo per esempio a Eros Ramazzotti, avrebbero investito tutto sul figlio senza remore. Ma a me soltanto fino a pochi anni fa mia madre chiedeva ancora quando andavo all’ufficio di collocamento. Per una maggiore sicurezza, mi diceva. Del resto, avevo sconvolto tutti i loro piani. E quando appena laureato in Scienze politiche venni chiamato per essere assunto alla Banca d’Italia e rifiutai, per loro fu un momento terribile. Ma anche per me ovviamente, perché lasciavo il certo per l’incerto seguendo soltanto la chimera di una passione.

Da anni lei è uno dei più ambiti autori per tantissimi colleghi, oltre ad avere all’attivo sette propri album. Scommessa stravinta e fiducia genitoriale ripagata... Libro a parte, che progetti musicali ha?

Esce ora il nuovo disco di Gabbani al quale ho collaborato e ho lavorato anche al prossimo album di Gianna Nannini che dovrebbe uscire in autunno. Ma poi sto radunando un po’ di canzoni mie che continuo ad accumulare e che ora devo riprendere in mano in vista di un mio eventuale disco. Devo solo scegliere i brani con cura, non si può sbagliare. Meno che mai di questi tempi.