Agorà

Anteprima. NOBEL per la Pace: ecco la loro vita da film

ANGELA CALVINI venerdì 17 giugno 2016
«Nel 1994 mio marito ed io eravamo due perfetti sconosciuti che telefonavano a tutti i premi Nobel per la Pace dicendo: “Il Dalai Lama ci ha dato il suo numero, si vuole unire al nostro programma per educare i giovani del mondo?”. In tredici ci hanno detto sì perché eravamo due americani pazzi che sfidavano l’impossibile». Ventidue anni dopo sono loro, la bionda Dawn Egle e il “rockettaro” Ivan Suvanjieff, ad essere in lizza per vincere un Nobel per la Pace con la loro “Peacejam Foundation” che è stata candidata per ben quindici volte al prestigioso riconoscimento. Sorride Dawn, ex analista finanziaria delle Nazioni Unite, seduta accanto a Rigoberta Menchú, l’attivista guatemalteca premiata nel 1992, al Grimaldi Forum di Mon-tecarlo, mentre racconta ad Avvenire la sua avventura. Oggi “Peacejam ” è la fondazione che riunisce il più alto numero di premi Nobel al mondo: Desmond Tutu, il Dalai Lama, Betty Williams, Óscar Arias, Aung San Suu Kyi, Mairead Corrigan, Adolfo Pérez Esquivel, Jody Williams, José Ramos- Horta, Shirin Ebadi, Leymah Gbowee e Rigoberta Menchú. Del gruppo faceva parte anche lo scomparso Józef Rotblat. Rigoberta Menchú – Daugheter of the Maya (“La figlia dei Maya”), proiettato in anteprima mondiale al Festival della Televisione di Montecarlo che si è concluso ieri, è iterzo lavoro della serie Nobel Legacy Film Series (“L’eredità dei Nobel”), prodotta da “Peacejam”, iniziata a nel 2014 con Desmond Tutu – Children of the light (“Figli della luce”), il primo docufilm sulla vita dell’arcivescovo anglicano, uno dei padri del Sudafrica moderno.  Nel 2015 è uscito Adolfo Pérez Esquivel – Rivers of hope(“ Fiumi di speranza”), che ha raccontato gli ultimi ottant’anni della storia del Sudamerica visti attraverso gli occhi del premio Nobel per la pace 1980. Nel 2017 uscirà un docufilm su Óscar Arias, l’ex presidente della Costa Rica Nobel, mentre nel 2018 si racconterà la vita del Dalai Lama, da un’ottica inusuale, e poi a proseguire. «Tutti conoscono il Dalai Lama come guida spirituale buddista, ma pochi conoscono l’altro suo volto, quello dello scienziato», spiega Dawn Egle che è anche l’autrice e regista dei film, di cui il marito Ivan (i due sono stati sposati da Tutu) è il produttore. «Sono film proiettati ai festival di tutto il mondo, acquistabili in Dvd e trasmessi sul web. Ma il nostro obiettivo è quello di portarli in televisione », dice l’attivista che porterà in autunno il doc sulla Menchú al Festival di Roma.  La missione di “Peacejam” è quella «di creare i leader del futuro, di ispirare i giovani a prendere in mano le loro vite e guidare il cambiamento dei loro popoli e delle loro nazioni seguendo l’esempio e l’ispirazione dei vincitori del Nobel per la Pace». Tutto iniziò nel 1993 quando Ivan Suvanjieff, musicista punk e giornalista, ebbe una discussione con quattro ragazzini armati, suoi vicini di casa a Detroit. Da lì l’idea di portare i premi Nobel per la Pace a parlare ai ragazzi delle periferie della sua città. A aiutarlo Dawn, che era in contatto col Dalai Lama. Sinora un milione di ragazzi di tutto il mondo tra i cinque e i venticinque anni hanno partecipato ai programmi di formazione della fondazione, incontrando faccia a faccia i premi Nobel che nel frattempo hanno aderito anche alla nuova campagna di “Peacejam”, i diritti umani, l’educazione.  “One billion act of peace”, allo scopo di creare entro il 2019 un miliardo di “atti di pace” nel mondo per trovare soluzione all’estrema povertà, e per promuovere il riscatto sociale di donne e bambini, la risoluzione dei conflitti, la salute, In tanto fermento, proprio a Rigoberta Menchú è venuta l’idea della serie di film. «La forza delle immagini, a volte, può più di molte parole – ci spiega il Nobel –. Figlia dei Maya prima di tutto è la storia del Guatemala, un documento che mostra l’importanza della partecipazione, un modo per far conoscere la nostra lotta per i diritti degli ultimi, perché il silenzio è un nemico. Questi massacri non devono mai più accadere, per questo lavoriamo sull’educazione dei giovani al rispetto per la vita». Il documentario è un reportage appassionante, capace di condensare in un’ora un contesto storico documentato all’interno del quale la vita e la lotta di una giovane ragazza maya assume un senso epico e universale. L’ingiustizia in Guatemala ha radici lontane, che risalgono alla dominazione spagnola, alla riduzione in schiavitù degli indigeni, divenuti in seguito poverissimi campesinos nei latifondi, dove adulti e bambini lavoravano e morivano di stenti (come due fratellini di Rigoberta) nei campi. Splendide foto d’autore immortalano una povertà rassegnata mentre la voce narrante conduce attraverso l’inferno di una dittatura militare che trascina il Guatemala alla guerra civile e al genocidio dei Maya. La testimonianza cruda delle immagini dei notiziari d’epoca è il punto forte del documentario, insieme al racconto in prima persona di Rigoberta Menchú. Senza rancore, sempre a favore della giustizia e della dignità, nonostante i terribili assassinii dei suoi familiari. Il doc sottolinea l’importanza della Chiesa cattolica nella parabola di Rigoberta, dalle suore che la fecero studiare al vescovo Samuel Ruiz che la spinse a testimoniare, sino all’assassinio del vescovo Gerardi. «Tutti i premi Nobel per la pace hanno avuto vite segnate dalle difficoltà, le loro sono storie di grande impatto – spiega la Menchú commossa –. Attraverso il nostro dolore possiamo spiegare come affrontare le sfide della vita, anche attraverso un film».