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Intervista. Núñez, la poesia e l'altro che è in noi

Alberto Fraccareta sabato 19 maggio 2018

Lo scrittore e poeta cubano Victor Rodriguez Nunez

Di Víctor Rodríguez Núñez, singolare interprete del realismo magico marqueziano, è stata recentemente edita in Italia la raccolta Despegue ( Decollo, a cura di Gianni Darconza, Raffaelli, pagine 48, euro 5), vincitrice del Premio Internazionale di Poesia della Fondazione Loewe. È uscita da pochissimo, sempre per Raffaelli, un’antologia della sua opera poetica, La notte scritta male. Poesie 20002017 (pagine 232, euro 20), curata da Emilio Coco. Nato a L’Avana nel 1955, Núñez è anche giornalista, critico, traduttore e professore di Letterature Ispaniche presso il Kenyon College, a Gambier in Ohio. Ha pubblicato quattordici sillogi: alcune sue liriche sono state tradotte in otto lingue, tra cui il cinese. Negli anni 80 divenne caporedattore della rivista culturale cubana “El Caimán Barbudo”. Conosciuto come lettore carismatico nei più importanti festival letterari internazionali, Núñez – non dissimile da molti autori di lingua spagnola – vede nella performance uno dei caratteri peculiari dell’atto poetico. I suoi testi spigolosi valorizzano, infatti, la vocalità ballerina del castigliano, già resa oscillante, almeno de visu, dai versi “a scalino” che lo avvicinano a Luzi e Caproni.

Quale relazione c’è tra la sua poesia e il realismo magico?

«García Márquez non amava l’espressione “realismo magico” perché sembrava più un’etichetta commerciale per vendere i suoi libri che una categoria estetica. Penso che avesse torto poiché c’è qualcosa di prezioso in esso, presente per altro in tutte le sue opere: la sfida alla ragione occidentale. Un’arte che propone la rappresentazione della realtà, con tutte le sue miserie e la sua grandezza, e che allo stesso tempo riconosce il vero carattere del sogno, del ricordo, dell’immaginazione... In altre parole, comprendere la realtà nella sua totalità e nella sua fluidità costante, senza confini artificiali di alcun tipo, come l’oggettivo e il soggettivo. In questo senso, è un superamento del realismo essenzialmente borghese del XIX secolo, così come del realismo socialista in apparenza rivoluzionario del XX secolo. Non avevo mai pensato che la mia poesia fosse legata al realismo magico, ora devo ammettere che, in effetti, vi trovo un legame profondo».

E che influenza ha avuto Márquez nel suo lavoro poetico e critico?

«Márquez è sempre stato un modello per me: ogni volta che lo rileggo, lo amo di più. Senza il suo lavoro il mio non sarebbe quello che è. Mi ha influenzato come giornalista, principalmente per la dignità estetica che ha dato a questo mestiere, an- che se mi sono rivolto a un genere che non ha praticato, l’intervista. Come modesta retribuzione, ho scritto una monografia sulla sua attività giornalistica ( Cent’anni di solidarietà, 1986) e ho curato un’antologia dei suoi articoli su arte e letteratura ( La solitudine dell’America Latina, 1989). Mi ha anche influenzato come poeta, perché la poesia era sempre al centro della sua scrittura ed era l’unico potere in cui credeva. Per lui tutta l’arte ha il suo fondamento nella trasposizione poetica della realtà. Non bisogna dimenticare che quando ha ricevuto il Premio Nobel nel dicembre 1982, il suo brindisi è stato dedicato alla poesia, “per le virtù di divinazione e la vittoria definitiva contro i poteri sordi della morte”».

Perché si definisce “orfano di lirismo”?

«Lo dissi una volta, quando ero troppo giovane, e in risposta ad alcune critiche, quelle che non mancano mai. In verità, mi considero un poeta lirico, anche se non sappiamo ancora cosa sia il lirismo, e anche se provo a farlo in un altro modo. Il dizionario della Royal Academy of the Spanish Language, che Márquez tanto criticò, cerca di enfatizzare l’intimità e la soggettività. Per me il lirismo è legato a un tipo di linguaggio, fondamentale per la poesia: il discorso tropologico. Qui il dizionario è più generoso e utile: “Uso di una parola in un senso diverso da quello a cui corrisponde correttamente, ma che ha con esso una qualche connessione, conformità o somiglianza. La metafora, la metonimia e la sineddoche sono tipi di tropi”. In breve, la poesia è pensata per immagini, per comprendere la realtà in una maniera differente da quella scientifica, nel punto in cui convergono il sentimento e l’intelletto».

Emilio Coco ha scritto che, nella sua poesia, gli elementi della natura e le persone «sono liberate dalla loro verità sostanziale e quotidiana e redenti nel mito». In che senso?

«Coco, straordinario ispanista e traduttore, potrebbe certamente rispondere meglio di me. Ma per un attimo lascio i panni dell’oggetto per diventare un soggetto: la poesia è la fabulazione della realtà. Il punto d’inizio è l’esperienza quotidiana, le sfide che la natura e la società ci impongono ogni giorno. Bisogna comprendere il mondo che ci circonda e che esiste al di fuori e indipendentemente dalla nostra coscienza, non solo come realtà ma anche come possibilità. Capire che le cose sono più di semplici cose, sono relazioni nascoste che è necessario osservare al di là del 'feticismo delle merci' per accogliere la loro 'vita propria', come ricordava Márquez. Ed è questo che ci ha permesso di andare avanti, come specie animale, prima dell’inclemenza del tempo e prima delle nostre stese imbecillità».

Il mito permette così di vedere sotto una nuova luce?

«Sì, quella luce rivela che l’alterità non è qualcosa di estraniante, ma è dentro di noi. Non si tratta di negare se stessi e affermare il collettivo, secondo la proposta del cosiddetto 'socialismo reale', quanto di riconoscere il collettivo come parte interiore. Non cerco con la mia poesia di creare un mondo alternativo, al di fuori della nostra realtà storica e concreta. Sto cercando una poesia dialogica, la lirica non come monologo ma come dialogo, una creazione tra me e un altro. La nozione di un io autosufficiente e potente è stata attaccata da diversi lati da Marx e Freud e, tuttavia, questi attacchi teoretici di successo non hanno avuto conseguenze pratiche. La società attuale, con le sue ingiustizie e disuguaglianze, continua a basarsi sull’egoismo».

Qual è il ruolo sociale della poesia a Cuba?

«Non mi stanco mai di ripetere che la poesia cubana era rivoluzionaria prima della Rivoluzione. Ha continuato a essere nel mezzo di profonde trasformazioni che hanno avuto luogo sull’isola dal 1959, nonostante la sfiducia paradossale del potere rivoluzionario; e ciò anche dopo il declino della Rivoluzione iniziato negli anni Novanta. È rivoluzionaria per la sua rinuncia al solipsismo, per il suo differenziare l’altro, e farlo in modi diversi, con notevole libertà creativa. La poesia sin dal suo inizio è stata un incantesimo contro le avversità, il verso è per definizione una reazione contro gli avversi. E la sua funzione sociale, dal momento in cui le ideologie cominciarono a strutturarsi, è stata quella di combatterle senza quartiere».

Come sono cambiate le relazioni tra Stati Uniti e Cuba con Trump?

«L’attuale amministrazione statunitense ha fermato il promettente cambiamento dei rapporti con Cuba avviato dal governo Obama. E il pretesto principale per tornare al punto zero sembra un capitolo di realismo magico. Non so se la stampa italiana abbia riferito dei cosiddetti “attacchi sonici” che, presumibilmente, hanno colpito ventiquattro diplomatici statunitensi a L’Avana l’anno scorso. Si parla di “danni uditivi, visivi, di equilibrio e di memoria”, e che “i suoni potrebbero essere un effetto collaterale di qualcos’altro che ha causato il danno”, senza che ciò sia spiegato con rigore scientifico. Il caso “ha collocato la comunità medica americana in un territorio sconosciuto” e i medici trattano i pazienti come “se fosse una malattia mai vista prima”. Spero che i problemi nelle relazioni internazionali non solo possano essere spiegati ma risolti dall’arte della magia...».