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Cinepallone. Neri Marcorè, "Zamora" e i dolori del giovane Walter

Massimiliano Castellani venerdì 29 marzo 2024

L’attore Neri Marcorè qui nei panni dell’ex portiere Cavanna firma la sua prima regia del film “Zamora”, nelle sale dal 4 aprile

Che Neri Marcorè fosse uno degli artisti più eclettici del nostro panorama lo sapevamo da un pezzo. Canta, imita, recita - in tv, al cinema e in teatro - e ora è passato anche dietro la camera da presa per il debutto alla regia con Zamora ( presentato in anteprima al Bif&st di Bari): film venduto già in trenta paesi che uscirà nelle sale giovedì 4 aprile. Opera prima tratta dal romanzo omonimo (appena ripubblicato da HarperCollins) di Roberto Perrone: gastrosofo e inviato di sport del Corriere della Sera, classe 1957, prematuramente scomparso nel 2023 e che di certo avrebbe apprezzato questa trasposizione cinematografica. Fate attenzione popolo degli stadi e non, trattasi di pellicola che nel genere “filmografia calcistica” se la gioca alla pari con l’unico film davvero riuscito, alle nostre latitudini e non solo, prima di questo: Ultimo minuto (1988) di Pupi Avati.

Per atmosfere nostalgiche e romanticamente rarefatte (Neri Marcorè è stato protagonista dell’avatiano Un cuore altrove) Zamora ricorda Ultimo minuto, anche per l’attenta analisi introspettiva dei personaggi di un film corale, impreziosito dalla scelta accurata delle musiche: dalla struggente Arrivederci di Umberto Bindi alla speranzosa Il mondo di Jimmy Fontana. «Era la bella musica romantica di un’epoca che parlava al cuore di un’intera generazione, a differenza della musica di oggi che comunica appena dentro alla cameretta in cui si rifugiano i nostri figli», dice paterno Marcorè smarcandosi per un attimo dalla descrizione della validissima formazione allestita con il cast di Zamora.

Una felice scoperta il suo talento registico, pari a quello da portiere dell’anticalcistico ragionier Walter Vismara (l’ottimo e credibile Alberto Paradossi), protagonista di questa storia ambientata nell’Italia del boom. Quei ruggenti anni ’60, in cui tutto stava cambiando, calcio compreso: lo sport nazionale elevato da gioco a «messa laica» dal Poeta, anche del gol, Pier Paolo Pasolini. Gli anni del dominio nazionale europeo ed intercontinentale dell’Inter del “Mago” Helenio Herrera e del Milan del “Paròn” Nereo Rocco.

Terminata l’epopea del ciclismo con l’epico duello Bartali-Coppi, l’Italia appassionata del folber, brerianamente parlando (per i digiuni di calcio, come il primo Vismara, vedi alla voce Gianni Brera, “scriba massimo” di football), iniziò quella della staffetta Azzurra: Mazzola-Rivera. Al calcio dava del folber anche il commendator Tosetto (splendidamente interpretato da Giovanni Storti del trio Aldo, Giovanni e Giacomo), dedica eponima non certo casuale del bracconiere di storie di cuoio Perrone, a quel Tosetto del Monza anni ’70, per i tifosi e dirigenti storici come Adriano Galliani semplicemente il “Keegan della Brianza”.

Il cumenda Tosetto, antesignano del sogno calcistico berlusconiano, dell’omonima azienda, assumendo il contabile Vismara lo aggiorna subito sui quattro pilastri della vita: «Dio, Tosetto, guarnizioni e folber ». Con il quarto elemento niente affatto secondario, in quanto «alla Tosetto si lavora e si gioca». Quattro regole che suscitano il totale smarrimento del Vismara. Giovane ragioniere assennato e irreprensibile. Il figlio modello, esperto di cinema e di quiz da Rischiatutto approdato dalla provinciale Vigevano di Lucio Mastronardi nell’industriosa Milano.

Città tentacolare, abbozzo di metropoli avvolta nella scighera, (la nebbia) deprecata dallo scrittore anarchico Luciano Bianciardi, al quale il fuorigioco stava antipatico, così come il ragioniere di Vigevano ignorava serenamente le regole del gioco. L’occhialuto ed elegante Vismara atterra come un marziano sotto la Madonnina, totalmente digiuno dei resoconti domenicali della Rosea ( La Gazzetta dello Sport) e inconsapevole di quella Febbre a 90’ che aveva contagiato la già costituita Repubblica fondata sul pallone.

Dalla vicenda personale e i dolori del giovane Walter si dipana una trama in cui Marcorè tratteggia quelle pandemie umane mai estirpate, che vanno dall’invidia dei colleghi e dei vicini di casa, allo stress per il lavoro (incarnato dall’impiegato Ale - del duo Ale e Franz - che si alza alle cinque del mattino e in lambretta si presenta alla Tosetto), dall’incomunicabilità, alla voglia di emancipazione femminile (la sorella di Walter si separa e lo tiene nascosto alla famiglia, perché per il padre, il piccolo imprenditore Vismara, sarebbe stato uno “scandalo” agli occhi della gente di Vigevano).

«La sintesi di tutte queste debolezze che emergono dal film si traducono nell’inadeguatezza che credo sia una condizione umana che tutti abbiamo provato almeno una volta nella vita – spiega Marcorè – . Ci sono tante sinapsi che rimandano ai filmdi allora, a Mastronardi che ne Il Maestro di Vigevano (interpretato da un superbo Alberto Sordi) aveva narrato il cambiamento sociale con il boom economico portato dai calzaturifici. E questo aspetto me la rende molto affine alla mia regione d’origine, le Marche. Poi ci sono le mie curiosità e la rappresentazione di un gusto personale nel concentrarmi sulle piccole cose, su delle sciocchezze - sorride il regista - . Tipo il padre che fuma sul balcone a gambe larghe, il pigiama appeso allo stendino o la scatola di scarpe rovesciata da Walter quando entra nel negozio (il titolare è Franz) del centro di Milano, dove la sorella lavora come commessa…».

Dettagli di un piccolo mondo antico del secolo scorso, in cui lo sfondo è quello del calcio che anima le chiacchiere da bar sport, ai tavoli dei trani (l’ostezione ria meneghina) e che viene decantato, epicamente, dalle voci alla radio. «Il barista, che poi si scoprirà anche arbitro del bigmatch della Tosetto - scapoli e ammogliati del 1° maggio - , è un napoletano che, come tanti arrivati dal Sud per integrarsi al Nord per sopravvivere finge: parla il dialetto e il suo idolo con tanto di foto appesa alla parete è l’Arbitro, Concetto Lo Bello».

Il “Tiranno di Siracusa”, l’autorevole e onorevole giacchetta nera per antonomasia, croce e delizia dei tifosi e dei radiotelecronisti. «Non ho alibi - continua Marcorè - . Trattandosi di un pezzo importante della mia essenza, con le relative curiosità e passioni giovanili, allora in Zamora ho messo dentro tutte le trasmissioni e tute le voci che hanno fatto la storia del calcio: Ameri e Ciotti di Tutto il calcio minuto per minuto, la Domenica Sportiva la cui prima conduzione era affidata a Enzo Tortora ».

Era il tempo delle partite “guardate alla radio”, degli eroi della domenica ammirati alla tv, in bianco e nero, e che tutti, giovani e non, cercavano di emulare nei campetti di periferia o nelle partite aziendali come quelle che Walter era costretto a disputare confrontandosi con la sua “bestia nera”, il «viscido» Gusperti (colui che gli aveva appioppato ironicamente il nomignolo “Zamora”, mitico portiere spagnolo degli anni ‘30).

«Quella del campo per Walter diventa la grande prova esistenziale. Una barriera che deve piazzare e superare per vincere tutte le sue paure, a partire da una “timidezza paralizzante” con cui ho dovuto fare i conti anch’io. Ognuno di noi ha incontrato sul suo cammino un Gusperti, la cattiveria umana di chi spesso o ci umilia o ancora peggio ci cancella dal suo raggio visivo rendendoci invisibili agli occhi degli altri. La timidezza, l’insicurezza e quel senso di inadeguatezza di cui parlavo, allora fa sì che si venga relegati sempre più ai margini del gioco. A quel punto, se non trovi il coraggio di cambiare la tua partita, mentre è in corso, allora il rischio è quello di diventare vittime di ogni forma di discriminazione. Io alle scuole medie ho provato sulla mia pelle il bullismo, da cui ti liberi solo se trovi il coraggio di reagire. E per farlo hai sempre bisogno dell’aiuto di qualcuno che veramente riconosca il nostro talen to e soprattutto il valore fondamentale della nostra sensibilità».

La fortuna di Walter è quella di incontrare, anzi di andare a cercare aiuto, nella figura del campione maledetto, l’ex portiere Cavazzoni. Uno che per il calcioscommesse ha gettato alle ortiche una carriera da titolare del Milan, lasciando poi moglie e figlio per una entraîneuse e finendo nel vortice dell’alcol e degli aguzzini del gioco d’azzardo. «Per Cavazzoni mi sono ispirato alla figura di Ricky Albertosi che dopo la squalifica per il calcioscommesse si rimise in gioco e a 45 anni venne a chiudere la carriera nell’Elpidiense, la squadra di Porto Sant’Elpidio, la città dove sono nato. Ricky poi l’ho conosciuto giocando insieme nella Nazionale Sport e Spettacolo... Cavazzoni si è messo in panchina da solo. Mi piaceva che fosse anche lui un provinciale di una terra cattolica come il Veneto che non gli aveva perdonato il tradimento della moglie e il fallimento professionale. Perciò per la vergogna non aveva fatto più ritorno a casa».

Cavazzoni e Walter uniscono le loro sconfitte, ma riescono a riscattarsi. Walter si riscatta agli occhi della signorina Ada, del padre, ma soprattutto di quei colleghi come Gusperti che pensavano fosse una schiappa e invece con le lezioni notturne prese da Cavazzoni all’Arena di Brera scopre un talento sconosciuto. E Cavazzoni quando parla ricorda lo Zoff di Marcorè. «Diciamo che gli ho dato quella cadenza lenta e scanzonata tipica di Dino Zoff che quando lo imitavo un giorno mi incontrai e mi disse: “Scusa, ma perché mi prendi sempre in giro alla tv?”. E io quasi scusandomi: ma guarda Dino che se ti imito è solo perché ho una ammirazione sconfinata per la tua persona e anche come calciatore tu sei il mio idolo, da sempre».

L’ex idolo di San Siro, Cavazzoni, alla fine cancella le tante partite perse con la vita grazie alla sfida vinta da Walter nella partita del 1° Maggio. Una vittoria personale: Giacomo Poretti, imprenditore e presidente della Fulgor Pessago, al triplice fischio è talmente impressionato dalla prestazione di Vismara che prova a strapparlo al Tosetto (segue rissa nello spogliatoio) offrendogli uno «stipendio doppio», da contabile-calciatore.

«Sappiamo che Walter con quel trionfo ha sconfitto le sue paure e che finalmente troverà il coraggio di innamorarsi. Ma non sapremo mai se proseguirà la carriera da portiere - conclude Marcorè - . Mi sono permesso di cambiare il finale del romanzo… E l’unico rimpianto dopo l’ultimo ciak è stato pensare a Roberto (Perrone) che non ha fatto in tempo a vedere il film. Quando gli inviavo le prime clip era felicissimo. Poi in una delle ultime telefonate commosso mi disse: “Sai Neri, mi dispiace non poter venire sul set, ma purtroppo sono in ospedale, devo curarmi”… Grazie al suo Zamora ho capito tante cose della mia giovinezza, compreso il fatto che il calcio è rivelatore: lì mezzo al campo puoi comprendere il vero carattere di un uomo».