Agorà

Fotografia. Nell'«odissea» di Paolo Pellegrin

Giuseppe Matarazzo giovedì 3 giugno 2021

Uno degli scatti inediti esposti alla Venaria Reale: durante il periodo di quarantena in famiglia, Svizzera, 2020

La fotografia «antropologica » di Paolo Pellegrin è «un’odissea nell’umano e nel disumano». Così Germano Celant, il grande curatore e critico d’arte scomparso lo scorso anno, definiva il 'viaggio' del pluripremiato fotografo romano, membro dell’agenzia Magnum, nella monumentale antologia edita nel 2018, in edizione limitata e numerata, da Silvana. Un volume che si muoveva e continua a muoversi con il progetto espositivo partito dal Maxxi di Roma e che, dopo una tappa alla Deichtorhallen di Amburgo, da mesi è approdato alla Venaria Reale. Qui, fino al 20 giugno, fra gli 'stop and go' legati ai colori e alle riaperture che questo tempo pandemico ha imposto, sarà possibile ripercorrere l’«odissea» di Pellegrin. Odissea di visioni, dove drammaticità e umanità si parlano. Dove al buio corrisponde sempre una luce. Dove nel racconto di guerre, di violenze, di drammi – dall’Uganda alla Cambogia, da Haiti al Kosovo, dal Libano all’Iran – Pellegrin non dimentica mai la condizione umana, muovendosi con sorprendente lucidità in quel filo teso fra sofferenza e bellezza.

A introdurci nel mondo di Pellegrin è un grande 'collage' della battaglia di Mosul, come una «allegoria» di tutti i conflitti e delle loro conseguenze. Le immagini della guerra, della morte, dei rifugiati, dei muri e dei conflitti artificiali sono in dialogo - passando da una sala all’altra, in un allestimento suggestivo - con le immagini dedicate all’impegno umanitario e alla grandezza della Natura, rappresentata nelle sue forme più meravigliose, ma anche nelle sue visioni più terrificanti: dal volo libero delle aquile di mare al paesaggio australiano devastato dagli incendi boschivi, dagli imponenti ghiacciai dell’Antartide che continuano a sciogliersi a ritmi sostenuti alle acque ingrossate dello tsunami in Giappone. Ci si muove fra oltre 200 immagini, alcune molte grandi e avvolgenti, al punto di sentirsene parte, e tante, tantissime più piccole, che costringono il visitatore ad avvicinarsi, a fermarsi, lo spingono a uno sforzo di comprensione e di riflessione. Come davanti ai numerosi volti che hanno conosciuto le sofferenze che il fotografo ha visto e documentato in tutti gli anni di professione da reporter.

Ragazze palestinesi si bagnano nelle acque del Mar Morto, Cisgiordania, 2009 - ©Paolo Pellegrin - Magnum Photos

Un viaggio per immagini, senza date, luoghi, testi. Un’immersione assoluta nell’«odissea» di Pellegrin. Con la consapevolezza che aveva Celant: «Il reportage, per Pellegrin, non è un’operazione accelerata e veloce, distaccata e fredda, ma – come per Walker Evans e Lee Friedlander – è una manifestazione dell’interpretazione personale, che si alimenta di estetica e di espressività, di angoscia e di sofferenza. È la sintesi di una posizione critica del fotografo rispetto alla visione impersonale della realtà: un racconto, scandito per momenti e per capitoli, che aiuta a mettere in contesto la situazione affrontata e chi la documenta ». «Non mi interessa rubare una fotografia – ora è Pellegrin a parlare –. Mi interessa, invece, per quanto mi è possibile, vivere con le persone che fotografo. Ho un approccio antropologico: mi piace trovare temi e soggetti per raccontare le mie storie». Senza farsi travolgere dalla velocità degli avvenimenti: «Bruciamo eventi in un tempo velocissimo, tutto passa in un attimo. Pochi giorni e la Storia appare consumata. Ci sembra già tutto lontanissimo solo un mese dopo. E allora il senso di quello che faccio me lo dà l’idea che ci sia qualcuno che registra i fatti, gli eventi e ne lascia testimonianza ». Un viaggio che continua, non si ferma mai. Per questo Pellegrin parla di un’antologia «aperta»: «Non può essere un’esposizione finita. Io sono ancora in una fase produttiva e viva. Di tappa in tappa, inserisco in mostra i lavori più attuali».

Così a Venaria Reale, rispetto al Maxxi, spicca il progetto realizzato durante il lockdown, lo scorso anno. Le visioni di un tempo incerto e inatteso di cui solo in queste ultime settimane si intravede una luce. Il suo punto di vista non è però da fotoreporter: il suo contributo è personale e intimo. La luce dei volti delle figlie Luana (10 anni) ed Emma (6) che corrono tra i campi di fronte alla cascina, in Svizzera, nella quale il fotografo ha trascorso il periodo di quarantena in famiglia. «Ho fatto una scelta per me strana – spiega Pellegrin –: non sono andato a raccontare, documentare storie altrui, come sono abituato a fare, ma con la mia famiglia abbiamo fatto scelta di stare insieme, di non viaggiare. Il racconto di questa esperienza penso contenga delle tracce universali che possono diventare metafora. Tracce nelle quali chiunque si può riconoscere. Con questo virus intorno».

La visione successiva è la lunga e grande parete di disegni, taccuini, appunti, maquette, diapositive, negativi, copertine che raccontano quello che c’è dietro lo studio di Pellegrin. Al tempo della vita vissuta. Una sorta di 'happening' realizzato con la sorella, l’artista Chiara Pellegrin, dove il visitatore può calarsi nella complessità del processo creativo del fotografo. Il suo mondo. Il suo planetario. «L’odissea nell’umano e nel disumano».