Agorà

Intervista. Nek si confessa: la morte del padre, la fede, la crisi coniugale...

Massimo Gatto martedì 3 marzo 2015
«Una stella di giorno / non si vede ma c’è / E nel buio di notte / anche il cielo è / Invisibile» canta Filippo Neviani, pardon Nek, tra i solchi nel nuovo album Prima di parlare mettendo a nudo un senso profondo, perché «la fede e l’anima non sono visibili, ma nessuno può negare la loro esistenza e importanza così come nessuno può negare quell’amore che dovrebbe regolare il comportamento di tutti gli abitanti di questo nostro mondo». Reinventato a 43 anni da un secondo posto al Festival di Sanremo che vale la vittoria, il rocker di Sassuolo riparte col sostegno di undici nuove canzoni, tra cui la fortunatissima Fatti avanti amore, più la rielaborazione di Se telefonando offerta al pubblico dell’Ariston nella serata riservata alle cover. Nek, lei ha detto che il disco precedente era più tetro, mentre questo più luminoso. Perché? «Perché, nel frattempo, ho cambiato dopo dodici anni il team di lavoro e questo ha portato a nuove sinergie. Non è un disco rock ma un disco sporco che usa anche il rock in certi colori. L’importante è variare le cose, ma anche avere qualcosa da dire». Pensa che il Festival abbia cambiato la percezione che la gente aveva di lei? «A quelli che mi chiedono se sono tornato, vorrei dire che non me ne sono mai andato. Disco capitanato da un pezzo più incisivo di altri del passato. La vita non è una conquista al cento per cento, ma un giocarsela. Questo disco è una specie di concept  autobiografico». Era la sua terza esperienza all’Ariston. «Diciotto anni fa Sanremo mi ha cambiato la vita con Laura non c’è, ma non me lo sono goduto come me lo godo oggi. È cambiata la consapevolezza. Allora l’unica urgenza era quella di correre, mentre ora vivo con la consapevolezza di dare un nome qualsiasi sensazione riesca a provare». Oltre ad “Invisibile” in “Prima di parlare” ci sono canzoni particolari? «Una canzone Credere Amare Resistere fa riferimento all’Associazione Voa Voa!, una Onlus costituita da Guido e Caterina De Barros, genitori di Sofia, bimba affetta da una terrificante malattia neurodegenerativa, per aiutare famiglie che si trovano nella loro situazione ad avere un adeguato supporto morale, legale, fisico. Sono organismi come questo o come quella Associazione Nuovi Orizzonti che ha supportato il mio cammino di fede, ad alleggerirti, per quanto possibile, il peso della vita». La fede che peso ha in tutto questo? «Prima ero un po’ tiepido con Dio, mentre ora provo sempre più il bisogno di non sentirmi solo. Il mio rapporto con la religione è un cammino continuo; un continuo conoscere, conoscersi, accettarsi,  capire i propri limiti. A volte ci si riesce, altre no, si cade, ci si rialza, ma l’importante è andare avanti. Per capire il posto che la fede occupa nella mia vita non mi sono limitato a leggere il Vangelo, ma ho voluto toccare con mano; sono andato a Medjugore, ma pure nelle comunità per capire perché una persona che magari ha smarrito la sua dignità la ritrova attraverso un’esperienza di fede». La famiglia è stato il suo centro di gravità anche nei momenti più difficili. «Dopo vent’anni di vita assieme qualche incomprensione può arrivare.  Quattro anni e mezzo fa la nascita della nostra piccola Beatrice, con tutte le criticità che un evento così importante a volte comporta, ha rischiato di allontanarmi da mia moglie Patrizia. Grazie al cielo fra noi è bastato uno sguardo per capire l’abisso che si stava aprendo e siamo tornati indietro». Un prova dura. «Il dolore è forse l’unica cosa che ti fa capire cos’è utile e cosa è futile. Tre anni fa, ad esempio, ho perso mio padre Cesare; dopo due anni e mezzo di sofferenza, ho visto l’eroe della mia vita spegnersi piano piano. Una parte di me ha pianto quel vuoto, mentre l’altra attraverso la fede ha accettato la condizione; non l’ha subita, non ne ha fatta una colpa al mondo, ma ha cercato di reagire. Anche se in certe situazioni è tutt’altro che facile».