Agorà

Cinema e tv. Hitler e gli altri, i NAZISTI dello schermo accanto

Alessandro Zaccuri giovedì 21 aprile 2016
I passanti, in genere, scoppiano a ridere. Alcuni abbozzano il saluto di prammatica, molti si fanno avanti per un selfie, non di rado propiziato da qualche bevuta. Pochi, pochissimi reagiscono come ci si aspetterebbe. Un ciclista che inveisce, un ragazzo che ostenta indifferenza davanti a una sezione del Muro di Berlino segnata dalla Stella di Davide. E il più dignitoso di tutti, l’uomo di mezza età che spezza l’incantesimo con parole semplici e dirette: «È una vergogna che lei se ne stia qui, sulla piazza di Bayreuth, a disegnare caricature – dice –. Se fosse in mio potere, le avrei già detto di andarsene». Adolf Hitler non si scompone, ci mancherebbe altro. Vero che siamo nel 2014 anziché nel 1934, ma questa è la Germania e il Führer, nonostante tutto, la Germania la conosce. Magari non sarà un capolavoro, questo Lui è tornato che il regista David Wnendt ha tratto dall’omonimo best seller di Timur Vermes (il libro è edito in Italia da Bompiani, il film sarà in sala nei giorni 26, 27 e 28 aprile: per informazioni www.nexodigital.it). Però è un oggetto cinematografico più che interessante, che si discosta a più riprese dal romanzo di partenza per inoltrarsi nel territorio ambiguo e provocatorio che sta a metà strada fra la candid camera e il cosiddetto mockumentary , il “finto documentario” nel quale la finzione si mescola con il reportage. Il racconto d’invenzione c’è, e coincide per un buon tratto con la trovata di Vermes: finora crioconservato in una stanza segreta del famigerato bunker, Hitler si risveglia all’improvviso dal suo sonno medicalmente assistito e si ritrova nel mondo di oggi. Multietnico, ma anche multimediale. Volete che un oratore del suo calibro non faccia colpo in tv? Anche senza un Goebbels, poi, il leader del nazionalsocialismo capisce subito quale formidabile strumento di propaganda possano essere i social network. L’ignoranza della storia, unita alle ferree regole dell’audience, provvede al resto. Si tratta di un apologo amaro e non di rado un po’ grossolano, al quale l’interpretazione del protagonista Oliver Masucci conferisce però una profondità inaspettata.  Per quanto non favorito dal fisico (non somiglia affatto a Hitler, non fosse altro per i quasi due metri di altezza), l’attore riproduce alla perfezione gli atteggiamenti anche psicologici del suo fosco modello. Non soltanto quando c’è da interpretare la parte in senso stretto, ma anche e specialmente quando il set si trasferisce in strada, dove vengono carpite le reazioni di persone ignare di trovarsi all’interno di un esperimento mediatico e sociale. Una minoranza si indigna, come abbiamo anticipato, mentre la maggioranza coglie l’occasione per spassarsela ai danni di quello che sembrerebbe un comico in vena di eccessi. Gli unici che non si divertono per niente sono i neonazisti professi, che affrontano con durezza l’impostore. È in questi casi che Masucci dà il meglio, improvvisando risposte che nella loro surrealtà sono più hitleriane di Hitler stesso. Lui è tornato è, in effetti, uno degli episodi più vistosi all’interno di una tendenza che dal 1962 a oggi non ha mai smesso di dimostrarsi vitale. La data non è scelta a caso, perché è in quell’anno che lo scrittore statunitense Philip K. Dick – sì, lo stesso che sta all’origine di Blade Runner – pubblica il romanzo noto in Italia come La svastica sul sole (Fanucci). Siamo nel regno del fantastico, provincia dell’ucronia, contrada del what if: che cosa sarebbe successo se...? Se Hitler avesse vinto la guerra, nella fattispecie. Eventualità raggelante, successivamente ripresa da diversi altri autori, tra cui Robert Harris, che la sviluppò nell’avvincente Fatherland (1992). Dal romanzo di Dick è stata tratta nei mesi scorsi un serie televisiva targata Amazon, che negli Stati Uniti ha fatto molto discutere per le strategie di marketing estremo adottate per il lancio: parliamo di vagoni della metropolitana di New York con i sedili addobbati di svastiche, per capirci. Va bene l’ironia, va bene la guerra degli ascolti, però quando è troppo è troppo. Che la spinta propulsiva di The Man in the High Castle (questo il titolo originale del libro) si stia almeno in parte esaurendo è un’impressione abbastanza diffusa. La variante più recente, per esempio, incrocia l’immaginario di Dick con quello iniziatico-adolescenziale di Hunger Games e affini: il risultato è Wolf della statunitense Ryan Graudin (traduzione di Ilaria Katerinov, De Agostini, pagine 400, euro 14,90). Lo scenario è quello che ormai conosciamo: la Seconda guerra mondiale è stata vinta dalle forze del-l’Asse, l’Italia è stata assorbita dalla Germania e il vero alleato del Reich è il Giappone. Ogni anno dieci giovani campioni delle due nazioni si sfidano in uno spietato raid motociclistico, tra i cui concorrenti si infiltra nel 1956 la ribelle Yael, una ragazza ebrea sopravvissuta ai lager e trasformata in una sorta di mutante dagli esperimenti dei medici nazisti. Riuscirà a far uso dei suoi poteri per uccidere l’altrimenti inavvicinabile Führer? Oltre che ben costruito sul versante narrativo, il libro di Ryan Graudin denota una notevole consapevolezza stilistica, ma dal punto di vista dell’immaginazione storica non aggiunge granché di innovativo. Più sottile – anche se per seguirne gli sviluppi occorre inabissarsi in un discutibile assortimento di perversioni sessuali – è l’ipotesi allestita da uno scrittore anglo-israeliano, Lavie Thidar. Per scelta dell’editore italiano anche il suo romanzo da noi si intitola Wolf (traduzione di Alfredo Colitto, Frassinelli, pagine 302, euro 20), ma l’assunto iniziale è del tutto diverso. Altro che la guerra, Hitler non è riuscito neppure a vincere le elezioni del 1933, al posto suo sono saliti al potere i comunisti, la Germania è diventata uno Stato satellite dell’Unione Sovietica e i nazisti sono fuggiti all’estero. A Londra, per esempio, dove l’uomo che ora si fa chiamare Wolf tira a campare lavorando come detective privato. In compenso, la Gran Bretagna sta per consegnarsi al fascista Oswald Mosley e gli Stati Uniti, pragmatici come al solito, accarezzano l’idea di contrastare l’avanzata bolscevica insediando a Berlino un governo-fantoccio nazionalsocialista. Wolf rifiuta la proposta, che viene invece accettata da un camerata segaligno e occhialuto, di cui neppure Hitler conserva il ricordo. Si chiama Adolf Eichmann e, in un modo o nell’altro, di lui sentiremo ancora parlare.