Agorà

Intervista. Salvatore Natoli: «È tempo di essere virtuosi»

Simone Paliaga sabato 22 settembre 2018

Salvatore Natoli

Il Festival della Dignità Umana alla sua V edizione mette a tema quest’anno la «Speranza di futuro». Da oggi al 20 ottobre a Borgomanero, Arona, Briga Novarese, Novara, Orta San Giulio e Torino, il festival propone incontri e altri eventi per riflettere su come si può parlare di dignità umana se non si fanno anzitutto i conti con la domanda sul senso della vita. La speranza è la risposta esistenziale a questa domanda. Sperare è aprirsi con fiducia al futuro e sentire il bisogno di progettarlo per sé e per gli altri. Fra i partecipanti agli incontri del festival: Aldo Bonomi, Eugenio Borgna, Alessandra Cislaghi, Lucilla Giagnoni, Davide Maggi, Lidia Maggi, Roberto Mancini, Salvatore Natoli, Moni Ovadia, Giannino Piana, Francesco Remotti, Francesca Rigotti, Luigi Zoja. Info: www.festivaldignitaumana.com.

«C’è speranza solo se c’è fiducia» assicura ad Avvenire, in occasione del Festival della Dignità Umana, Salvatore Natoli a lungo professore di Filosofia teoretica presso l’Università di Milano-Bicocca. Autore di più di trenta di libri tra cui il bellissimo L’esperienza del dolore (Feltrinelli) e il recente L’animo degli offesi e il contagio del male (il Saggiatore), Natoli è uno dei più audaci pensatori italiani, interessato a interrogare il senso del divino nell’epoca della tecnica e a elaborare un’etica capace di comprendere il rapporto tra felicità e virtù e tra corporeità e sacro.

Che cos’è la speranza, professore?

«Per me, ma penso possa essere condiviso da tutti, la speranza è un sentimento. È legata alla vita che vuole se stessa, proiettandosi oltre se stessa, oltrepassando il momento presente. Per comprenderne appieno il significato vale la pena ricorrere alla parola greca usata per esprimerla. Gli antichi chiamavano la speranza elpís. E in questa parola ci si imbatte nel gruppo “elp” che ritroviamo anche nel latino voluptas, voluttà, piacere, desiderio. Pertanto la speranza ha a che fare con la proiezione del desiderio e dunque con l’apertura al futuro della spinta vitale che così non si chiude su se stessa».

Oggi comincia il Festival della Dignità Umana. Perché è opportuno parlare di speranza in questa occasione?

«Il nesso non è immediato. Ma c’è. Se la speranza è una proiezione della vita essa deve allontanare da sé le dinamiche negative e distruttive. Per questo la speranza emerge in maniera più evidente in concomitanza di eventi catastrofici. In queste circostanze si presenta come rispetto della vita e dal momento che la vita vuole se stessa riconosce a ogni vita il diritto all’esistenza».

Non ha l’impressione che oggi prevalga un diffuso senso di disperazione?

«Direi piuttosto che assistiamo a una forma soft di disperazione. In genere essa è drammatica. Oggi invece la diminuzione di speranza è sottotono».

Eppure nei giovani sembra fare capolino?

«Si tratta di dinamiche psichiche ammantate da tonalità depressive. L’atteggiamento dei giovani è duplice. Da un lato l’incertezza del futuro li induce a non pensarci e a indugiare nel presente. Dall’altro, quando si volgono all’avvenire, vi vedono degli sviluppi e cominciano a pensare di potercela fare».

Come affrontare questa situazione?

«Il mondo è cambiato. Non siamo più ai tempi descritti da Olmi in Il posto quanto in quelli raccontati da Checco Zalone. Oggi è richiesta un’estrema mobilità. Il posto fisso non viene più nemmeno preso in considerazione. I ragazzi tentano di afferrare le occasioni che capitano. Ma questa nuova situazione può essere subìta o compresa. Occorre educarsi alla flessibilità in modo da riconoscere nelle dinamiche in atto oggi le possibilità di sviluppo che hanno in sé. Non si tratta però di un atteggiamento frequente. Si preferisce l’adattamento all’oggi mentre occorrerebbe sviluppare la speranza con azioni. Non è un caso che molti giovani si dedichino ad attività di volontariato o prendano parte all’associazionismo».

Secondo lei a influire su queste dinamiche depressive pesa pure la cosiddetta secolarizzazione?

«Le religioni sono indubbiamente modellate sulla speranza. Nella quotidianità emerge di norma un bisogno di protezione che porta a confidare in una potenza che rassicura e dona fiducia e speranza. Confidare in una potenza aiuta perché fornisce anche un’immagine collettiva di speranza. Ci sono altri che sperano con te e pertanto a una dimensione verticale si unisce una dimensione orizzontale della speranza che promuove quella 'catena umana' di cui parlava Leopardi, uomini che cooperano insieme creando una comunità».

Come riattivare allora questa speranza che le dinamiche depressive ottundono?

«Occorre imboccare la strada delle perseveranza. È il vero modo per uscire dalla disperazione e dallo stato depressivo presente. Nel parlare comune si usa di frequente l’espressione coltivare la speranza. E coltivarla significa perseverare. Questa è la modalità vera di vivere la speranza: trovare il bene presente per elevarlo a propria meta. Allora la speranza diventa concreta e non si riduce a sogno. Anzi si radica nella vita perché il perseverante si chiede cosa possa fare lui per aumentare il bene suo e il bene collettivo. Ed essendo la perseveranza azione la speranza diventa virtù».

Quindi la perseveranza ha a che fare, per riprendere il titolo di un suo recente libro, con l’educazione di sé?

«È una pratica della virtù. È trasversale, è necessaria a tutte le virtù perché tramite l’esercizio sviluppano un’abilità. Per comprendere a fondo il rapporto tra perseveranza e virtù bisogna ricordarne l’accezione greca di areté. Una virtù che va quindi intesa come ars e non come castrazione. Virtuoso è l’atleta che si esprime nell’esercizio. E questa concezione della virtù appartiene sia al mondo greco sia al mondo cristiano. Pensi all’espressione atleta di Cristo. Le virtù non sono quindi che delle determinazioni della realizzazione di sé che si esprimono nel governo di quel desiderio intrecciato intimamente alla speranza di cui parlavo prima».