Agorà

Firenze. Natalia Goncharova, la Russia a Parigi

Maurizio Cecchetti venerdì 4 ottobre 2019

Natalia Goncharova, «Pavone (nello stile dei ricami russi» (particolare, 1911)

La prima volta che vidi i disegni che il giovane Chagall realizzò ritraendo la vita contadina, magari scaldandosi le terga seduto sulla stufa della cucina, ebbi l’impressione che stesse disegnando forme “animali”. Nel senso che quelle figure di contadine e contadini, dei loro figli e delle bestie che curavano e allevavano erano accomunate da uno stesso tratto grafico, da un sentimento comune, e bisogna dire che il mondo sognante ed ebraico di Chagall, per quanto primitivo, favolistico, sacro, non ha più raggiunto in seguito la stessa intensità che si coglie in quei disegni. Nato a Vitebsk, nell’attuale Bielorussia, Chagall intraprese diciannovenne la strada d’artista e si trasferì a San Pietroburgo dove venne instradato verso Parigi nel 1910. Quando quattro anni dopo tornò a Vitebsk, la sua mutazione in artista occidentale era avvenuta per sempre. Qualcosa del genere accadrà anche a Natalia Goncharova, uno dei vertici dell’avanguardia russa.

Nel 1913, quando Chagall è a Parigi, Natalia, che ha già 32 anni, quindi è di sei anni più anziana di lui, allestisce a Mosca una “retrospettiva” con ben 800 opere dove espone dipinti, disegni, bozzetti teatrali, modelli di moda, oggetti di decoro e design ecc. La vedranno molte, ma tutto sommato non moltissime persone, circa dodicimila, per lei però è l’apoteosi e al culmine della gioia dirà: «Pacchi di giornali con articoli che si contraddicono fra loro… scandali pubblici e ricevimenti nei ristoranti, tre edizioni del catalogo, commissioni per ritratti, per un tappeto, per scenografie; e tre lavori sono stati dalla Galleria Tret’jakov». A esprimersi con un termine oggi in voga nei social media, Natalia diventa da quel momento una influencer: le sue mise eccentriche, i suoi modi ricercati, le sue ideazioni da stilista saranno presto seguite dal mondo moscovita d’avanguardia e intellettuale. In quell’occasione il pittore Michail Fëdorovic Larionov, suo compagno di vita, conierà il termine “tuttismo”. In sostanza, voleva dire che Natalia era un artista eclettica, che traeva ispirazione da tutto, era pronta a cogliere le novità (probabilmente vale anche verso l’opera degli altri artisti), ma era forte nello stile, forte nel linguaggio, geniale nelle soluzioni.

Nelle sale di Palazzo Strozzi è stata allestita fino al 12 gennaio una grande retrospettiva della Goncharova (130 opere, ma sempre poche rispetto alle ottocento del 1913), che fino a un mese fa era alla Tate Modern e poi andrà a Helsinki. Tra una stanza e l’altra, ogni tanto alzavo lo sguardo verso l’alto dove sono proiettati filmati d’epoca da cui si può valutare il mondo russo soprattutto prima della Rivoluzione d’Ottobre: si vedono momenti della realtà moscovita, scene popolari, balletti e opere teatrali, la vita contadina e quella delle processioni sacre e religiose, immagini di militari e raduni politici. Non so se mi sono fatto un’idea giusta, ma osservando le immagini della vita agricola, certamente propagandistici o comunque esemplari agli occhi del documentarista, ciò che si vede – il lavoro dei campi, i volti rugosi e i corpi deformati delle donne rese anziane dalla fatica, la robusta stazza degli uomini e i loro animali da lavoro, la bellezza delle messi e i momenti di riposo o di ballo popolare –, ebbene tutto questo mi è parso di una modernità sconcertante che fa rimpiangere ciò che è accaduto dopo (indebolendo queste tradizioni a vantaggio dell’ideologia).

Non mi stupisco che Natalia Goncharova, ma anche Malevic e Larionov, e lo stesso Chagall, fossero attratti da questo universo in fortissima relazione con le origini della vita umana e delle comunità. Ciò che crediamo moderno, a volte, è solo ciò che riusciamo a vedere dopo aver cancellato quel che viene prima. E rivedere quanto abbiamo rimosso può riservare molte sorprese. Si consideri che la Goncharova non era una donna del popolo o una proletaria, aveva origini nobili, i suoi genitori producevano e commerciavano in tessuti. Sviluppando la vocazione d’artista Natalia ha una passione per i tessuti, eredità di famiglia, parla subito la lingua dell’avanguardia (futurismo e cubismo), ma non dimentica tuttavia il proprio ethos, ama la cultura rurale e popolare (splendidi i dipinti La mietitura del 1907-08, Contadini che raccolgono le mele del 1911 e Girotondo del 1910); coltiva il mondo degli artigiani, colleziona lubki – antiche stampe popolari russe che risalgono fino al XVII secolo con varie iconografie religiose, l’uccello del Paradiso per esempio (uno dei quadri più belli esposti, un capolavoro, è il Pavone – Nello stile dei ricami russi del 1911, che sembra ispirarsi alle decorazioni sui tovaglioli del XIX secolo), e continuano fino a tutto l’Ottocento diventando sempre più scene narrative, folcloriche e a tratti persino favolistiche –; ed era anche collezionista di icone, un genere, come sappiamo, anticamente praticato da religiosi e quindi per uomini, per cui quando anche lei si dedicò a realizzare icone, venne guardata con sospetto e addirittura processata per alcune immagini di evangelisti ritenute poco adeguate alla mistica sacrale della Chiesa ortodossa. Notevole, tra queste opere, il Trittico del Cristo Salvatore del 1910-11, che ha molto dell’icona ma anche una forza quasi tribale (lo spirito è simile a quello che le ispirò la Donna nera nuda del 1911) come anche il Trittico della Madre di Dio del 1911 o la bellicosa immagine del San Giorgio vittorioso del 1914.

L’elemento tribale o pagano non è peraltro casuale. Cinque o sei anni fa Palazzo Strozzi aveva allestito una retrospettiva sull’avanguardia russa dove per la prima volta si toccava questo argomento assai poco discusso ma in realtà ultimamente emerso negli studi russi: l’influenza delle tradizioni arcaiche, quelle siberiane e indoeuropee, sull’immaginario russo del primissimo Novecento, ovvero la suggestione degli artisti per le tematiche animistiche, sciamaniche, per l’Estremo Oriente, il buddhismo e il tribalismo. Questo nella Goncharova emerge più che in altri sui compagni di avventura: Il Vecchio con sette stelle (Apocalisse) del 1910 è un vero sciamano assiso sul candelabro ebraico, ma anche alcune figure femminili in abiti folclorici, oppure i disegni floreali e di uccelli mitici per le stoffe, i dipinti con dee della fertilità o ninfe, la grande parete della Mietitura composta di nove tele ed esposta a Mosca nel 1913 (qui riproposta solo con cinque pezzi) o ancora la Venditrice di pane del 1911 o La vergine sulla fiera del 1914. Il sentimento panico e i miti primordiali riaffiorano continuamente dall’elaborazione della Goncharova.

Alla vigilia della Grande Guerra, Natalia va a Parigi con Larionov per lavorare al balletto Le Coq d’or ma quando inizia il conflitto devono rientrare a Mosca. L’anno dopo ripartono al seguito dei Balletti Russi di Djagilev per un lungo tour europeo. Natalia non tornerà più in Russia e si stabilirà a Parigi. Durante quel tour teatrale, tra autunno e inverno 1916, fino a marzo 1917, sono a Roma per lavorare con Djagilev, Stravinskij e Massine (a gennaio arriveranno anche Picasso e Cocteau per Parade). Lì, i due russi declinano il cubofuturismo nel raggismo e si presentano con una mostra a Roma. Soffici aveva conosciuto Natalia a Parigi 1914 e l’aveva descritta così: «di grande ingegno, non bella, gradevolissima, alta, vestita alla diavola, indolente, silenziosa, misteriosa, russa in toto » – ritratto calzante sia per ciò che si sa dai libri sia per quel che si vede nelle opere e nelle immagini.

A Parigi l’artista russa farà fortuna nella moda, come scenografa teatrale e designer: strepitosi i bozzetti e i disegni dei costumi, assai meno connotati dallo stile post-cubista di Picasso per Parade, ma capaci di tenere insieme modernità, eleganza e tradizione popolare russa. Parigi però, a mio parere, sarà per lei un’arma a doppio taglio: la renderà famosa, ma col tempo le performerà la mente e la porterà a fare di quel suo eclettismo d’ispirazione una rivisitazione dello stile dell’avanguardia occidentale, seguendo i desideri dei committenti. È stato un po’ lo stesso destino di Chagall, che dopo aver lasciato giovanissimo la Russia non ritroverà più l’ispirazione degli anni prerivoluzionari.